Nuova storia d'Israele di Igor Man

Nuova storia d'Israele IN TRENTANNI HA DOVUTO COMBATTERE QUATTRO GUERRE Nuova storia d'Israele Trent'anni annegano nella storia del mondo, ma per Israele sono la «nuova storia»: in tre decenni lo Stato ebraico ha combattuto quattro guerre, ha quadruplicato la superficie del territorio sotto il suo controllo, la popolazione è passata da 650.000 anime a tre milioni e messo. Gli israeliani hanno restituito alla Galilea il suo splendore biblico, han trasformato in un giardino il deserto del Neghev, in forza del loro lavoro e del loro ingegno una delle regioni più depresse del mondo è diventata un Paese moderno e democratico, tecnologicamente avanzato. «Il segreto del successo, ha scritto Montesquieu, sta nel sapere quanto tempo occorre per riuscire» e tuttavia, quando, il 14 maggio del 1948, venerdì, alle quattro della sera Ben Gurion proclamò dinanzi a duecento persone convenute in una sala del Museo dell'Arte di Tel Aviv, la nascita di una nazione ebraica «che sarà conosciuta come lo Stato d'Israele» né il grande vecchio, né i 650 mila coloni ebrei di Palestina sapevano quanto tempo sarebbe loro occorso per «riuscire». Sapevano solo che dovevano. Il lunghissimo tormentato cammino percorso dagli ebrei dopo la Caldea, «passando per l'Egitto dei Faraoni, Babilonia e tutti ì ghetti della Terra, attraverso i campi di sterminio» poteva considerarsi tutt'altro che concluso il 14 maggio del 1948. In fatto cominciava, quel giorno, dopo duemila anni di attesa, l'ultimo, definitivo viaggio; il viaggio, appunto, della «nuova storia». Tutti ne erano coscienti, i coloni diventati cittadini si rendevano conto che la proclamazione dello Stato sarebbe apparsa come una sfida temeraria al Regno Unito e, soprattutto, all'intero schieramenta arabo. Nel suo diario, qualche ora dopo la breve cerimonia al Museo dell'Arte (37 minuti in tutto). Ben Gurion avrebbe scritto: «Non vi era ombra di gioia nel mio cuore. Non pensavo che a una cosa, alla guerra che dovevamo combattere». Il voto dell'Orni In verità gli ebrei combattevano contro l'esercito di liberazione arabo ormai da mesi. Ma questa volta sarebbe stata la guerra. Contro cinque massicci eserciti regolari. Il voto dell'Onu, pronunciato il 29 novembre del 1947, sulla spartizione della Palestina sotto Mandato britannico, in due Stati, l'uno arabo, l'altro ebraico, aveva esacerbato gli arabi. Nel 1922 il Libro Bianco di Churchill assicurava che nella Palestina non sarebbe mai sorto uno Stato ebraico; nuove promesse in questo senso erano state fatte alla vigilia della seconda guerra mondiale. Alla spartizione gli arabi risposero con raìds terroristici, alla «sfida» del 14 maggio 1948 non potevano non replicare se non con la guerra. Il 14 maggio Ben Gurion andò a letto presto, ma poco dopo luna di notte venne svegliato da una telefonata: Washington riconosceva lo Stato d'Israele. Era davanti ai microfoni dell'emittente dell'Haganah per una dichiarazione rivolta agli Stati Uniti, allorché una squadriglia di bombardieri egiziani attaccò Tel Aviv. «... Sono le prime bombe della guerra per l'indipendenza dello Stato di Israele», annunciò drammaticamente. Più tardi volle recarsi sui luoghi dell'incursione, per rendersi conto dei danni, per scruta- re in volto i suoi compatrioti: nessun segno di panico. Fu così ch'egli scrisse nel suo diario due parole profetiche: «Eleh yamduh - resisteranno». All'indomani della proclamazione dello Stato, truppe egiziane, siriane, irachene, giordane, libanesi si trovavano già a qualche chilometro dai centri più importanti di Israele. Il fronte era dappertutto. A Gerusalemme c'è un solo cannone montato su ruote, ai carri armati, alle artiglierie gli israeliani si oppongono armati dì fucili, vecchi mitragliatori, granate e bottiglie molotov. « In Israele chi non crede al miracolo non è realista», aveva detto Ben Gurion. E il miracolo ci fu: la resistenza di tutta una popolazione. L'esercito viene praticamente costituito durante la guerra, partendo dal nucleo dell'Haganah, formato in prevalenza dai reduci della Brigata Palestinese. Il primo aereo da combattimento arriva soltanto dopo due settimane di ostilità. Gli israeliani avevano il mare alle spalle, vi era una sola alternativa: o vincere o morire. Ed essi volevano vincere. Si aggrapparono al territorio che era stato loro concesso e seppero assorbire i colpi ricevuti «per infine restituirli con gli interessi». Paradossalmente, quando l'Onu, VII giugno del '48, riesce ad imporre il cessate il fuoco, sono gli arabi che lo accolgono con sollievo non minore di quello ebraico. E' il momento di far valere l'autorità dello Stato. Ben Gurion scioglie la banda Stern e l'Irgun Zvai Leumì, comandata da Menahem Begin. Alcuni degli irregolari, scrive Luciano Tas, «si sono macchiati di veri e propri crimini, come a Deir Yassin, crimini ripudiati dall'intero popolo ebraico, appena reduce da atrocità che non potevano in alcun modo giustificarne altre». Ogni giorno di tregua rinforzava la potenza militare di Israele e aumentava le sue probabilità di sopravvivenza. Quando l'8 luglio gli arabi rompono la tregua, Israele ha «gli arsenali ricolmi, l'Irgun schiacciato, il Palma eh imbrigliato, il piano della futura campagna elaborato». Con sessantamila uomini sul campo, per la prima volta gli israeliani erano superiori in numero e armamenti agli arabi. «Anche stavolta i dirigenti arabi avrebbero fatto, come spesso in passato, il giuoco degli israeliani». In luglio, in ottobre e infine in dicembre gli egiziani subiscono grossi rovesci, conoscono l'umiliazione della rotta. Il 7 gennaio 1949 accettano il nuovo cessate il fuoco. Il 13, a Rodi, con la mediazione di Ralph Bunche, trattano l'armistizio che verrà firmato il 24 febbraio. In 13 mesi di guerra lo Stato di Israele ha perduto 4000 soldati e 2000 civili ma è ormai una realtà. Che tuttavia gli arabi si rifiutano di riconoscere. Dopo la vittoria, cominciano gli «anni del consolidamento». Mentre settecentomila profughi arabi vengono gettati nei campi di raccolta dell'Onu, sparsi nei vari paesi arabi, settecentomila ebrei provenienti dai Paesi arabi afroasiatici vengono assorbiti, non senza difficoltà e squilibri, da Israele. Il diritto di ogni ebreo di «salire» in patria è solennemente sancito dal Parlamento del nuovo Stato con la «legge del ritorno». Gli anni che vanno dal '49 al 1956 sono anni di costruzione ma anche di guerra strisciante. Lo Stato di Israele cresce e si consolida in un contesto internazionale che vede l'Urss sostituirsi agli occidentali nel ruolo di «protettore» degli arabi. Nei campi profughi d'Egitto, Siria e Giordania nascono i primi fedayn: a loro sono affidate le prime azioni di una lunga guerra d'attrito. L'avvento di Nasser al potere in Egitto porta progressivamente a una ripresa delle ostilità molto vicina a una vera e propria guerra. Il 26 luglio del '56, quando il Raiss annuncia la nazionalizzazione del Canale di Suez, «il suo discorso ad Alessandria trasforma l'alleanza franco-israeliana da semplice idea a concreta intenzione» (Abba Eban, My Country;. La violenza di frontiera, il riarmo egiziano, l'ostilità sovietica e la freddezza americana, venuti tutti insieme, finiscono con lo spingere l'opinione pubblica d'Israele «verso una battagliera aggressività». Dayan a Suez E così, strumentalizzando i rigurgiti colonialistici franco-inglesi, Israele attacca. E' il 29 ottobre 1956. In pochi giorni Z'«operazione Kadesh» porta le truppe comandate da Dayan sul Canale. Israele ha un doppio obiettivo: sul piano militare distruggere la forza egiziana, sul piano politico obbligare il mondo a studiare finalmente la soluzione del «problema palestinese» «risalendo alle cause del male» (il rifiuto arabo di trasformare l'armistizio in pace), piutto¬ sto che appigliarsi ai suoi sintomi (gli incidenti di frontiera). Entrambi gli obiettivi falliscono perché Israele si trasforma agli occhi del mondo in una pedina della aggressione colonialista franco-britannica. Del resto, la campagna del 1956 non occupa nella memoria di Israele lo stesso posto «unanime, indiscusso, che hanno le guerre del 1948 e del 1967. L' "operazione Kadesh" era stata avversata dai ministri del Mapam e in seguito fu criticata dallo stesso Moshe Sharet». (Abba Eban, ibidem;. Mezzo Garibaldi e mezzo Cavour, Ben Gurion aveva l'autorità di un De Gaulle e potè quindi accettare con realismo le «pressioni» americane. Il conflitto con Nasser era diventato un conflitto Israele-Usa, Eisenhower-Ben Gurion e quest'ultimo, avendo ottenuto «assicurazioni» sul diritto di Israele alla libera navigazione nel Golfo di Eilath, accettò di ritirare le sue truppe dai territori occupati. Davide e Golia Undici anni dopo, nel 1967, la dichiarazione di dodici potenze marittime, fra cui gli S.U. che affermava il diritto di Israele alla libera navigazione attraverso «tutti gli stretti», rimarrà lettera morta. Costringendo Israele a scendere di nuovo in campo per salvarsi dall'annientamento. E' la guerra dei sei giorni, magnificata come la guerra fra Davide e Golia. Vince il più piccolo, e clamorosamente. Vince la guerra ma non la pace, il sogno dei «padri fondatori». Teodor Herzl, il fondatore e ideologo del sionismo moderno sognava che Israele diventasse «un faro per le nazioni». Ben Gurion, nel giorno della proclamazione dello Stato ebraico, dichiarò commosso: «Noi tendiamo la mano, con desiderio di pace e di buon vicinato, a tutti gli Stati che ci circondano». A trent'anni dalla sua fondazione, dopo la guerra del Kippur, non vinta ma neanche perduta, Israele non è riuscito a liberarsi dal marchio di «Stato-ghetto». Nonostante il «pellegrinaggio» di Sadat a Gerusalemme, la pace è ancora lontana. Uno dei più profondi co¬ noscitori della realtà israeliana, Vittorio Segre, ha scritto di recente: «Nessuno dei problemi esistenti al momento della creazione dello Stato d'Israele è stato risolto: né il problema delle frontiere né quello della autonomia economica del Paese né quello dei rapporti con gli Stati vicini. Altri problemi si sono aggiunti strada facendo come quello palestinese, che da problema di profughi è diventato un problema d'irredentismo rivoluzionario, quello delle zone occupate nella guerra del 1967, che si sono trasformate in madrepatria per gli uni, colonia per gli altri; quello della identità dello Stato che, non più unito dalla coscienza di essere un Paese assediato, fatica ora ad elaborare denominatori comuni per elaborare una società di immigrati». A trent'anni dall'indipendenza, il «problema» di Israele non è più quello della sopravvivenza, bensì un problema di credibilità politica. Quando gli arabi rifiutavano a Israele il diritto stesso ad esistere come nazione, non c'era alternativa al confronto. Ma dopo il gesto «storico» di Sadat bisognava avere il coraggio di esorcizzare con freddo realismo i fantasmi del passato per non mancare il più grande appuntamento della storia: la pace. «La maggioranza della popolazione israeliana, scrive Eban, comprende la necessità di un compromesso grazie al quale il Paese avrebbe confini migliori di quelli esistenti prima della guerra dei sei giorni, ma una configurazione molto più contratta di quella segnata dalle linee del cessate il fuoco. Una cosa è vivere senza pace quando ciò è inevitabile; tutt'altra sarebbe invece rinunciare a una prospettiva di soluzione in cui si fa appello a quella che, dopo l'indipendenza, è la più alta tra le visioni ebraiche». Questo discorso lo capiscono i pionieri e i sabra, non Menahem Begin. Ma Begin non è Israele. Czlebrando con simpatia e rispetto la sua «nuova storia», gli amici di Israele possono solo augurarsi che il popolo di Sion riesca a piegare l'ostinazione del «profeta disarmato». Igor Man David Ben Gurion, uno dei fondatori dello Stato d'Israele, il giorno in cui compì ottantasette anni (foto Farabola)