Il maestro d'irrealtà di Giorgio Manacorda

Il maestro d'irrealtà RICORDO DI WALSER Il maestro d'irrealtà Il compito è paradossale: questa è una commemorazione. Un centenario. Nasceva infatti nell'aprile di cent'anni fa Robert Walser, scrittore svizzero il cui massimo impegno fu cancellare il proprio «Dasein», il proprio esserci. Difficile (e certamente scortese) costringere alla presenza dopo morto chi in vita si è sforzato in tutti i modi di non esistere: «Uno zero. Io, come individuo, sono uno zero ». Questa cerimoniosa occasione, ripensandoci, non sarebbe riuscita troppo sgradita a Walser. Egli era infatti consapevole che i rapporti umani esistono nella misura della loro « formalizzazione », ma — peraltro — è proprio questa formalizzazione ad occultare ogni possibile rapporto. E che cosa c'è di più formale della celebrazione di un centenario? Dunque, vista la difficoltà del soggetto e la sua indeterminatezza, cerchiamo di andare sul sicuro: Robert Walser nasce a Biel, presso Berna, nel mese di aprile del 1878 e muore a Herisau (Appenzell-Ausserhoden) il giorno di Natale del 1956. Trascorse gli ultimi trent'anni della sua vita in una casa di cura schedato come schizofrenico. Per il resto impiegato di banca a Basilea e poi, cambiando mestiere, Stoccarda, Zurigo; e finalmente Berlino dove scrive i suoi tre romanzi (I fratelli Tanner 1907, L'assistente 1908, Jakob voti Gunten 1909) e frequenta un po' di avanguardia storica: il fratello Karl era uno scenografo di nome che lavorava con Max Reinhardt al « Deutschers Teather ». Nell'Assistente Robert Walser racconta se stesso, la propria «insignificante» esperienza di assistente presso un ingegnere esuberante e vacuo proprio come il Cari Tobler del romanzo. Tutto vero: la villa sulla collina, il Lago di Zurigo, la signora Tobler, i bambini, il paesaggio e il servizio militare. Tutto vero, nella sostanza, anche per Jakob von Gunten, se Cari Seelig (il grande amico che ha curato la pubblicazione delle opere di Walser) può parlare di « diario narrativo», e in effetti Walser frequentò una scuola per servitori e fece per un certo periodo il cameriere. La sostanza autobiografica dell'opera di Walser è fuori discussione, ma è anche fuorviante: infatti nessuno come questo scrittore di libri autobiografici sembra negare la preminenza dell'io compiuto, totalizzante, dominatore. Si ha invece la sensazione di una polverizzazione del soggetto: il protagonista parla per dissipare, disperdere, azzerare la propria consistenza umana, parla per rivelare la propria vacuità, il proprio essere un puro produttore di parole, di chiacchiera. Parlando, i personaggi di Walser si spendono cerimoniosamente. Questo culto della formalità e dei formalismi, l'esasperata ed esasperante gentilezza dei loro rapporti umani non è altro che un modo per alienare nella convenzione più anonima e borghese qualsiasi guizzo di personalità. Giuseppe Marti, l'assistente, non fa altro che rimproverarsi la più piccola infrazione, il benché minimo affiorare di un desiderio o la più giustificata reazione: nega a se stesso il diritto di avere un carattere. Siamo al più completo capovolgimento della logica del romanzo borghese, concepito, da Goethe in poi, come romanzo di formazione di una personalità (Wilhelm Meister) o come grido di dolore della medesima (Werther). L'assistente finisce con queste parole pronunciate dalla signora Tobler: « Si abitui a vincere in silenzio la sua suscettibilità. Ciò che le donne sono costrette a fare ogni giorno non deve essere trascurato neanche dall'uomo ». In questi tempi dominati dal femminismo e dal giovanilismo, invasi cioè dalle più enfatiche presenze dell'io che dallo Sturm und Drang in poi sia stato dato registrare, Robert Walser propone a modello anche per gli uomini proprio ciò che le donne rifiutano una volta per sempre. La sottomissione come regola di vita è il messaggio più inattuale, il meno comprensibile a questi anni dominati dal culto della Spontaneità (o meglio dello spontaneismo) e dai bisogni del Desiderio e del suo immediato soddisfacimento. Si tratta dei sottoprodotti culturali di una psicoanalisi eccessivamente difhi sa e maldigerita: accade così che molti prendano il proprio ombe lieo per l'ombelico del mondo. Ecco, questo a Walser non poteva accadere: egli non aveva dubbi sulla propria marginalità, sulla marginalità dell'esistere. Sapeva che con la fine dell'Ottocento sono finiti i grandi sistemi ideologici, è finita ogni legittimazione filosofica (e quindi anche economico-sociale, o viceversa) della centralità dell'io antropologico, perché è iniziata la deriva dell'uomo borghese: il suo lento, irreversibile e anche splendido naufragio. Cosi un autore apparentemente tanto inattuale, addirittura improponibile, quasi sconveniente per chi subisca i facili terrorismi degli epigoni degli Anni Sessanta, riacquista una sua grande attualità: Walser è uno dei massimi autori di questo secolo; da mettere ormai senza esitazioni accanto a Kafka e a Musil. Che dire infatti di Giuseppe Marti se non che è « un uomo senza qualità»? E l'Istituto Benjamenta non è un « Castello » appena un po' meno mitico o metafisico? Non è un caso che certi recuperi, riscoperte o diffusioni avvengano in questi Anni Settanta: sono anni di crisi, anni in cui l'incertezza non è più soltanto un sentimento. Nessuno pensa di avere da percorrere strade maestre e irreversibili. Allora non resta che il vagabondare e Simon Tanner è chiaramente l'ultimo discendente di una genealogia di vagabondi letterari che ha la sua origine nel Taugenichts di Eichendorf o nel « Wanderer » settecentesco, ma con una differenza fondamentale: sia il « fannullone » di Eichendorf, sia il « passeggiatore » del Settecento erano dei contestatori: personalità a loro modo geniali più o meno esplicitamente in urto con la società del loro tempo. Simon Tanner no, come Giuseppe Marti e Jakob von Gunten, egli aderisce alla realtà che di volta in volta incontra sul suo cammino. Questa perfetta armonia con la realtà ha i toni espliciti dell'idillio: tutto procede (nei libri di Walser) senza scosse, senza traumi di qualche rilievo, senza contraddizioni. Scopriamo attoniti la bellezza della banalità assoluta, il fascino dell'ovvio: il potere stregato e stregante della vita quotidiana. Ma, attenzione, tutto deriva da una finzione «invisibile » ma vertiginosa: la vita che in apparenza tanto serenamente domina la scena è in realtà rigorosamente espunta da questi falsi idilli. Non siamo di fronte al proliferare della grazia e del sentimento come alternativa all'alienazione, ma all'assunzione dell'alienazione come luogo della grazia. Se questo è vero spiega la scelta di Walser in favore della follia, dell'assoluta alienazione. La coerenza, uno strano desiderio di perfezione, quasi un'ascesi negativa o, come dire?, « piatta », lo condurranno a finire i propri giorni in manicomio, consumando così fino in fondo la propria radicale rinuncia alla partecipazione e alla comunicazione. L'apoteosi della dipendenza contenuta nelle opere di Walser non è altro che la lode della perfetta regressione: rinunciare a quel simulacro di comunicazione assicurato dalle convenzioni e dalla loro vacuità. Spostarsi, quindi, definitivamente all'interno di una convenzione senza pretese di verosimiglianza: quella che « convenzionalmente» chiamano follia. Cosi il Walser vagabondo (militare, lavorante in fabbrica di gomma, cameriere, assistente...) sceglie definitivamente l'irrealtà quotidiana ed esplicita dell'istituzione totale, anticipazione mondana dell'aldilà e, insieme, concrezione fisica della separatezza e della inutilità del linguaggio, del nostro effimero parlarci. Simon Tanner si identifica ormai con Jakob von Gunten: il vagabondo è compiutamente il servitore, ma forse servitore dell'assoluto. Giorgio Manacorda

Luoghi citati: Appenzell-ausserhoden, Berlino, Berna, Herisau, Stoccarda, Zurigo