Il Sénégal contro la siccità di Alfredo Venturi

Il Sénégal contro la siccità VIAGGIO NEI PAESI DELL'AFRICA OCCIDENTALE Il Sénégal contro la siccità Acqua dal cielo ne viene poca; si pensa di sfruttare quella che scorre nei fiumi, con grandiose opere di sbarramento - I primi esperimenti positivi: dove cinque anni fa era solo terra arida ora cresce il grano Di ritorno da St. Louis (Senegal) — Chi lo avrebbe detto, cinque anni fa, al viaggiatore venuto da queste parti per studiare il fenomeno tragico della siccità, che oggi gli sarebbe toccato di veder biondeggiare il grano, dove allora biancheggiavano le ossa degli animali uccisi dalla sete? Siamo alla foce del fiume che dà il nome a questo Paese, nella vecchia capitale coloniale che un ambizioso programma di risanamenti vuole restituita agli antichi splendori. Saint Louis, oggi, è il capoluogo della regione del Fleuve, il fiume per antonomasia, il Senegal, che nel suo lungo tratto terminale fa da confine con la Mauritania. Il miracolo del grano lo abbiamo visto a Dogana, ad alcune decine di chilometri dall'Atlantico, dove una grande fattoria sperimentale prefigura ciò che questa regione potrà diventare, una volta che sarà stato avviato il governo delle acque. Il governo delle acque è, da sempre, problema chiave di questo come di molti altri Paesi africani. Il problema è semplice, nella sua brutalità: di acqua dal cielo ne viene poca, quando ne viene. La stagione delle piogge, che corrisponde ai nostri mesi estivi ma che qui chiamano hivernage, invernata, è avara e irregolare. Dopo la grande siccità degli anni '70-'74, altre ricorrenti siccità hanno compromesso le colture di arachidi, principale risorsa dell'agricoltura senegalese. L'anno scorso, il raccolto è stato dimezzato. Le previsioni a lungo termine non sono incoraggianti: un fenomeno apparentemente irreversibile sposta sempre più a Sud una linea immaginaria che si chiama fronte intertropicale. Linea immaginaria eppure di drammatica concretezza: perché soltanto al di sotto di questa linea arrivano dall'equatore, spinte dall'anticiclone di Sant'Elena, le nuvole gonfie di pioggia nei mesi estivi: a settentrione del fronte, nemmeno una goccia. Dunque non si può far conto deli'acqua che cade dal cielo. Ma per fortuna c'è anche l'acqua che scorre nei fiumi. Ce ne sono di grossi, il Senegal a Nord e a Est, il Gambia al centro, che per il tratto finale è compreso nel piccolo Paese che battezza col suo nome, il Casamance a Sud, quasi parallelo al vicinissimo confine con la Guinea-Bissau. Se il Casamance interessa anche quest'ultimo Paese, e il Gambia coinvolge nei suoi destini, oltre l'omonimo Stato, anche la Guinea-Conakry dalla quale discende, il bacino del Senegal è invece occupato da tre Paesi, Senegal, appunto, Mauritania e Mali. Sono precisamente i Paesi interessati ad un grandioso progetto, destinato a mutare la geografia di questa parte d'Africa. C'è un ente internazionale, che si chiama Omvs (Organizzazione per la valorizzazione del Senegal), e c'è un programma che cerca appunto nel fiume quell'acqua che è negata da un cielo sempre più avaro. La portata del fiume resta infatti notevole, nonostante le ricorrenti siccità, perché è acqua che viene da regioni a piogge relativamente costanti. L'Omvs prevede dunque la costruzione di due grandi sbarramenti: l'uno alla foce, per impedire la risalita della marea, che rende l'acqua evidentemente inutilizzabile per l'agricoltura, durante i perìodi di minore portata; l'altro a monte, per regolare il flusso. Altre conseguenze dell'operazione: il fiume diventa navigabile e può produrre energia. Naturalmente la cooperazione internazionale, anche italiana per via bilaterale, è chiamata a fare la sua parte. I pianificatori senegalesi insistono sul principio del «piano autosufficiente»: nel senso che i crediti necessari dovranno essere rimborsati proprio attingendo alla nuova ricchezza prodotta da simili realizzazioni. Gli obbiettivi finali, e ambiziosissimi: l'autosufficienza alimentare del Senegal, che oggi s'indebita pesantemente per importare cibo; il decongestionamento della regione del Capo Verde a vantaggio del nuovo asse nord-orientale. Camminando fra i nuovis- simi campi di grano di Dogana, è straordinario sentir parlare dei quattrocentomila ettari di terra, soltanto sul versante senegalese, che le due dighe di Diamo a Manantali permetteranno di mettere a coltura, dei due raccolti annui che sarà possibile fare, dei milioni di tonnellate di liso, di miglio, di grano che realizzeranno l'antico sogno dell'autosufficienza alimentare. Avremo un nuovo Nilo sulle rive del Senegal? Il governo di Senghor punta molte carte sui grandi progetti di sviluppo. La pianificazione è affidata ad un personale tecnico di altissimo livello. Lo abbiamo potuto constatare parlando con Ousmane Seck, ministro delle Finanze e fino a poco tempo fa responsabile del piano; con Mamadou Touré, consigliere economico del presidente della Repubblica. E' quest'ultimo a sottolineare l'importanza del governo delle acque, a lamentare la «fragilità dei nostri sforzi» di fronte alla «preponderanza dei fattori naturali». Touré insiste sull'assoluta priorità al settore agricolo: «Il nostro è un Paese all'ottanta per cento di contadini». E fino a poco tempo fa l'incidenza rurale sulla demografia era ancora più accentuata. Infatti «abbiamo anche noi il nostro urbanesimo», dice Touré. Ma è ben altra cosa dall'urbanesimo europeo: «Nei Paesi sviluppati diminuiscono le popolazioni delle campagne perché l'agricoltura progredisce liberando braccia che passano all'industria; da noi la gente abbandona i campi per fame». Le sterminate bidonvilles africane sono lì, a testimoniare questo fenomeno: e del resto non è certamente il Senegal il Paese più pesantemente afflitto da questa situazione. E' il ministro Seck ad illustrarci la pianificazione senegalese. Che non è, avverte, né di tipo autoritario e centralizzato, né di tipo liberale, puramente indicativo: «Seguiamo piuttosto un sistema misto», che fissa per lo sviluppo rurale obbiettivi e progetti precisi, per l'industria soltanto indicazioni d'obiettivo. «Ecco perché da noi l'iniziativa privata resta libera, nonostante la pianificazione». L'attuale piano è il quinto: varato l'anno scorso copre il quadriennio fino all'81: ma l'anno prossimo, a metà percorso, ci sarà un riesame generale. Priorità assolute l'agricoltura, l'allevamento, la pesca. «Bisogna prima di tutto che la gente abbia da mangiare». Autosufficienza alimentare, dunque, e soltanto dopo aver raggiunto questa méta si passerà ad una nuova fase, «un piano di accelerazione dell'economia». E' l'indicazione del presidente Senghor: uscire dal sottosviluppo per poi lanciarsi nell'avventura dello sviluppo. L'opposizione senegalese parla di neocolonialismo, intendendo con ciò il fatto che all'antica dominazione diretta da parte dei francesi si è sostituito un ruolo così preminente nell'economia da rendere l'indipendenza puramente formale. Ousmane Seck preferisce le cifre agli slogan: il settanta per cento del capitale delle società, dice, è controllato da stranieri, più precisamente il 55 per cento da francesi, il 15 da stranieri di altre nazionalità. Una cifra impressionante. «Non poi tanto, dice il ministro delle Finanze, se si pensa che al momento dell'indi- pendenza, diciotto anni fa, la parte dei francesi raggiungeva il 95 per cento». Quanto allo Stato, controlla direttamente circa un terzo dell'economia, ed è presente un po' dappertutto, o per supplire a carenze dell'iniziativa privata, o per essere presente in settori vitali, come quello dei fosfati (per metà sotto il controllo pubblico) o quello della distribuzione di energia. E' ciò che permette a questo Paese di dirsi socialista, contro le ironie di un'opposizione di sinistra che trova ben poco «sociale» il regime, di Senghor. «Lo spreco non è socialismo» , dice Abdoulaye Wade, capo della minoranza introdotta in Parlamento dalla recente riforma costituzionale. Wade allude ad una gestione del piano che definisce burocratica e clientelare. «Il Senegal è una riserva di caccia dei francesi» , accusa Mamadou Dia, ex primo ministro, capo del gruppo di opposizione Ande Sopì. Dall'altra parte si replica citando i pessimi risultati economici di certi «socialismi nazionalizzatori» africani. La partita, anche ideologica, si gioca proprio qui, sul terreno pratico del rilancio agrìcolo di questa regione fino a ieri condannata alle carestie. La stessa decisione di conservare la grazia antica di Saint Louis, città di simboli contrastanti, dove colonialismo francese e nazionalismo senegalese affondano le rispettive radici, sembra sottolineare la scelta senghoriana. Trasformare un pezzo di Sahel, del drammatico Sahel di cui sembrava non dovesse parlarsi altro che in termini di desertificazione, in una specie di granaio: è l'audace scommessa di un Paese che a ben motivate riserve critiche vuol contrapporre, inseguendo l'efficienza, inattaccabili realtà di fatto. Alfredo Venturi