IL DISSENSO A TORINO; DIBATTITO SULLA REPRESSIONE di Fabio Galvano

IL DISSENSO A TORINO; DIBATTITO SULLA REPRESSIONE IL DISSENSO A TORINO; DIBATTITO SULLA REPRESSIONE Quando a pagare è la cultura TORINO — Quale può essere l'effetto della repressione politica sullo sviluppo culturale di un Paese e quale significato culturale può quindi avere la lotta per i diritti civili? Una risposta, nel quadro delle giornate torinesi dedicate al dissenso e organizzate dalla Gazzetta del Popolo, in collaborazione con la Biennale di Venezia, poteva venire dalla tavola rotonda a cui, lunedì sera, hanno partecipato personaggi celebri come i dissidenti sovietici Bukovsky, Grigorenko, Turchi, Gorba■newskaia, ai quali si sono affiancati per l'occasione l'argentino Yrigoyen, il cecoslovacco Janouch, il greco Yannakakis in veste di moderatore, il sudafricano Mokoena, il cubano Franqui. Di fatto il tema centrale è stato soltanto un punto di partenza, attorno al quale si sono inanellate le denunce di sempre al mondo della repressione, la «crociata» di chi è sfuggito ai «gulag» di questo mondo. E' un'accusa sempre appassionata, che riesce con facilità a far vibrare le corde della solidarietà. Bukovsky, che dei personaggi venuti a Torino in questi giorni è apparso il più vivace, forse anche il più articolato, parla della «catastrofe della dittatura per la cultura». «Quella russa, con i Tolstoj e i Dostoevsij, i Ciaikovskij, e i Mussorgsky — dice — era nota in tutto il mondo; nel periodo di questa dittatura la nostra cultura è stata fucilata. In questi sessant'anni non è nato nessun nuovo Tolstoj». Ma accenna a una lenta rinascita della cultura, dopo la morte di Stalin, alla ricomparsa di poesie, racconti, canzoni, a quel fenomeno letterario, il samizdat, che « con una macchina per scrivere e la buona volontà può competere con la stampa di regime », un samizdat «che ha già avuto due premi Nobel» (Pasternak e Solzenicyn) e che è assurto a rinomanza mondiale («come la vodka e gli sputnik») grazie anche alle «letture pubbliche da parte del movimento, che sono costate a molti l'espulsione dalle università e dal posto di lavoro». La "russificazione" Il generale Petr Grigorenko sottolinea invece come lo Stato centrale abbia tentato nell'Unione Sovietica di neutralizzare le culture regionali, tessere di un mosaico che comprende «le oltre cento nazionalità sovietiche». Di fronte alla « russificazione » non possono più svilupparsi liberamente l'arte, la letteratura, la religione, tutto ~iò che forma l'elemento culturale di un Paese. «Nell'Ucraina, da dove vengo — osserva — le scuole nazionali diminuiscono, la lingua si guasta». Il popolo, sostiene Grigorenko, « reagisce sempre quando la sua cultura viene sopraffatta: ecco perché sono nati i movimenti per la difesa delle culture nazionali. Nell'Ucraina, come altrove, decine di scrittori sono stati imprigionati soltanto perché avevano espresso una difesa dell'antica cultura». La cultura, conclude Grigorenko, si impoverisce, muoiono le antiche tradizioni popolari. Il modo di sopravvivere sta ancora nella clandestinità, nella distribuzione da persona a persona di testi battuti a macchina: «Le fotocopiatrici sono più sorvegliate di una centrale nucleare», osserva con una battuta Frantisek Janouch, fisico nucleare cecoslovacco espatriato nel '75 e oggi all'Università di Stoccolma. « I professori espulsi dalle università, dice, insegnano agli studenti che non possono entrare per motivi politici nelle scuole dello Stato ». Lo fanno attraverso edizioni clandestine, le cosiddette «edizioni del lucchetto», in quella «università Ian Patochka» che è una specie di università della dissidenza, formatrice di una seconda cultura che si afferma, secondo Janouch, «in reazione al genocidio culturale di Husak». La vera cultura cecoslovacca, sostiene, è oggi privata: concerti, mostre, teatro, libri. Da una riflessione sull'effetto che un regime autoritario può avere sullo sviluppo della cultura non è difficile allargare il discorso, tornando sul tema più consueto di molti dissidenti, quello della repressione, tout court. Natalia Gorbanewskaia, la poetessa che fondò la più importante rivista del samizdat sovietico, Cronache degli avvenimenti correnti, fondatrice nel '69 del gruppo per la difesa dei diritti dell'uomo in Urss, rinchiusa in un ospedale psichiatrico, emigrata nel '75 e ora redat- trice della rivista Kontinent a Parigi, osserva come per le celebrazioni del 1" maggio a Torino, oi fossero «due, tre, quattro dimostrazioni, che cercavano tutte di gridare più forte delle altre, e per giunta tutte nate volontariamente, mentre da noi alle parate si è costretti». E quando uno fa le cose di propria volontà, ricorda, non ha molta fortuna: «In sette sulla Piazza Rossa fummo picchiati e poi arrestati, accusati di avere turbalo la pace, di avere diffuso "menzogne" sullo Stato sovietico. Le menzogne? Un cartellone con lo slogan "Per la vostra e la nostra libertà", uno slogan storico, già usato il secolo scorso dal movimento di liberazione polacco». Con il boicottaggio Secondo il fisico Valentin Turchi, autore di oltre settanta lavori di ricerca scientifica, fondatore nel '73 della sezione sovietica di Amnesty International, emigrato nel '77 dopo tre anni di «disoccupazione» e ora in una università americana, l'Occidente, e soprattutto il mondo culturale e scientifico, hanno il modo di aiutare, mediante il boicottaggio. «C'è il caso specifico del professor Yuri Orlov, un fisico esperto nell'accelerazione delle particelle elementari, arrestato nel febbraio 77. e col quale da allora non si è potuto comunicare. In febbraio ho scritto a tutti i fisici americani, proponendo che, se Orlov sa rà processato a porte chiuse, essi dovrebbero tagliare i ponti con gli istituti e i col¬ leghi sovietici. Ho ricevuto trenta risposte positive, fra cui quelle di tre premi Nobel e di tre membri dell'Accademia delle Scienze americana». Ma la repressione non è prerogativa dell'Urss, come la presenza maggioritaria di dissidenti sovietici potrebbe lasciare intendere. «Ci sono nel mondo 117 Paesi dove si assiste alla violazione dei diritti umani», ha sottolineato Cesare Pogliano, di Amnesty International. Ne sono stati testimoni due latino-americani e un sudafricano. Il cubano Carlos Franqui, denunciando le prigioni di Cuba in cui si trovano detenuti politici «come in 17 altri Paesi dell'America Latina», ha osservato come sia «sempre drammatica la voce del figlio di un popolo reso schiavo, ma peggio quando si è vinta la tirannide e poi si torna ad essa. Migliaia di persone sono in carcere, oltre tremila da più di 15 anni». Hipolito Solari - Yrigoyen, argentino, giurista e senatore fino al colpo di Stato militare del marzo '76, membro del partito di centro-sinistra «Unione civica radicale», vittima di tre attentati da parte della «3A» (Alleanza Anticomunista Argentina), incarcerato per nove mesi, poi esiliato, ritiene che prima del «golpe» i militari avessero l'80 per cento del potere, «ora anche il rimanente 20 per cento»; «la caduta della democrazia in Argentina, dice, risale al 1930, quando fu abbattuto il governo di Yrigoyen. Ma negli ultimi mesi sono state tolte tutte le libertà, ci sono 11 mila prigionieri politici, 20 mila persone sono scomparse, ottomila i morti riconosciuti. In tutto 100 mila cittadini sono stati in prigione, ed è una situazione vissuta anche in Cile, Uruguay, Brasile, con un regime che nega i campi di concentramento, le torture, i prigionieri politici». Infine Simon Mokoena, ventunenne leader studentesco del Sud Africa nero, ha risollevato il problema delV apartheid, della disgregazione della popolazione originale, del confino, delle torture. L'orrore degli ospedali psichiatrici (Bukovsky), i rapporti con i partiti eurocomunisti sovente sordi agli appelli dei dissidenti (Turchi e Janouch), sempre più esplicite critiche al comunismo come dottrina di Stato (Bukovsky, Franqui, Grigorenko) hanno chiuso un dibattito che, ancora una volta, è servito a «dare voce a chi non può parlare». Fabio Galvano