VIAGGIO NEI PAESI DELL'AFRICA OCCIDENTALE

VIAGGIO NEI PAESI DELL'AFRICA OCCIDENTALE VIAGGIO NEI PAESI DELL'AFRICA OCCIDENTALE Tra i francofoni torna la pace Si sta giocando una complessa partita diplomatica tra Sékou Touré, presidente della Guinea-Conakry, e Léopold Senghor, presidente del Senegal - Qui l'Occidente cerca di recuperare le posizioni perdute altrove Di ritorno da Dakar — «Sékou Touré? Un uomo certo intelligente, ma incostante. Un giorno mi abbraccia, un giorno mi maledice. Non è facile collaborare ». A poco più di un mese dalla « riconciliazione di Monrovia », ci si aspettava dal pres'dente Senghor un commento un po' più caloroso sulla stretta di mano che nella capitale liberiana ha sancito la fine, almeno formale, del lungo conflitto fra gli africani francofoni, in particolare fra senegalesi e guineani. Che cosa è dunque accaduto, a Monrovia. lo scorso 18 marzo? Le cronache soni abbastanza scarne. E' stato un incontro fra i massimi dirigenti di sei paesi d'Africa occidentale: Liberia, Gambia, Togo, Senegal, Costa d'Avorio, Guinea-Conakry. Soffermiamoci sugli ultimi tre di questi Paesi, e sulla personalità dei rispettivi presidenti. Il Senegal, vale a dire Léopold Sedar Senghor, una linea diplomatica f.lofrancese e flloccidentale, una situazione interna di tipo socialdemocratico, che recentemente ha saputo aprirsi, sia pure fra molte contraddizioni, sulle incognite del pluripartitismo. La Costa d'Avorio, paradiso economico di Felix HouphouètBoigny, il Paese più aperto ! ajli investimenti privati, fra i più «amici dell'Occidente», ma di un liberalismo che non va oltre l'economia: Abidjan rifiuta infatti le sugg stioni pluralistiche che si fanno strada a Dakar. La Guinea, infine, il Paese che con Sékou Touré fece vmt'anni fa il gran rifiuto a De Gaulle e alla sua comunità franco-africana, il Paesi militante del « socialismo scientifico », dove le carceri Felliniano di oppositori e il sottosuolo è gremito di preziosissima bauxite. Il gesto del '58, e più ancora i fatti del '70, quando gruppi di fuorusciti aiutati da agenti portoghesi tentarono lo sbarco per sovvertire il regime di Sékou Touré, hanno con¬ dannato la Guinea ad un lungo isolamento, appena temperato da burrascosi rapporti con l'Est. E' proprio da questo isolamento che Conakry ha deciso di venir fuori. L'incontro di Monrovia non è che la conclusione di una vicenda diplomatica partita parecchi mesi fa dal coincidere di due esigenze. L'esigenza guineana di rompere il guscio, l'esigenza occidentale di riguadagnare a ovest quello che si va perdendo a est e a sud. Di fronte all'offensiva sivietica e cubana, che non è soltanto diplomatica come ben sanno somali ed eritrei, e di fronte all'enigma australe, l'Occidente avverte la necessità di una compensazione nei paesi d'Africa occidentale. L'ambasciata francese a Conakry s'è impegnata con decisione per il recupero del ribelle Sékou Touré: e il risultato più appariscente di questi sforzi sarà, in autunno, la visita in Guinea del presidente Giscard d'Estaing. Ma anche la diplomazia angloamericana si è data molto da fare: e non è un caso che l'incontro del 18 marzo sia avvenuto per la mediazione delle autorità di Gambia e Liberia: sono stati gli anglofoni a riconciliare i francofoni, si dice negli ambienti diplomatici di Dakar. Per la normalizzazione dei rapporti fra Guinea e Occidente, infatti, era necessario che prima si mettesse una pietra sopra il contenzioso che da anni divide Sékou Touré dai suoi vicini africani. Un contenzioso difficile, fatto di durissime polemiche e nutrito dalla presenza, in Costa d'Avorio come in Senegal, di centinaia di migliaia di profughi guineani, che premono minacciosi alle frontiere del loro paese. Fino a ieri, il presidente di Conakry aveva sempre insistito sulla richiesta di estradizione dei profughi, il che avrebbe significato per questi ultimi carcere e patiboli. Senghor e Houphouét-Boigny hanno sempre decisamente respinto una simile richiesta. Fino all'ultimo, è stato proprio questo l'ostacolo principale sulla via della riconciliazione. Ma Sékou Touré, a Monrovia, ha saputo dar prova di realismo: « La nostra mano è lealmente tesa», ha esclamato rivolto ad uno scettico Senghor. Quest'ultimo ha risposto: « Prima di stringerla, ci vuole un impegno a seppellire per sempre la richiesta di estradizioni in massa ». Sékou Touré ha accettato, e subito dopo il presidente oltranzista di Guinea, avvolto nel suo candido bubu, ha brindato accanto al presidente poeta del Senegal, impeccabilmente vestito all'europea. Applausi, emozione: chi conosca le cose d'Africa sa benissimo che, fino a poche settimane fa, un avvenimento del genere era assolutamente impensabile. Ora ci si domanda se la riconciliazione durerà. Abbiamo visto un presidente Senghor tutto sommato abba-.. stanza dubbioso sulla costanza del « ciclotimico » Touré. I diplomatici della regione confidano piuttosto sulle capacità occidentali di valorizzare meglio di chiunque altro le immense risorse della Guinea: e proprio alle realtà economiche affidano il compito di « stabilizzare » il capriccioso presidente di Conakry. Non ha forse detto nei giorni scorsi Andrew Young (rappresentante degli Stati Uniti all'Onu), proprio qui a Dakar, che a lungo termine non c'è Cuba che tenga, in Africa, poiché un Paese che non è stato in grado d'industrializzare se stesso non potrà mai svolgere una politica economica a lungo termine in un continente sottosviluppato? Si profila così, attorno alla realtà dei rispettivi bisogni economici, un disegno occidentale che punta sui paesi dell'Afrìca-ovest, dalla Nigeria al Senegal, per contrastare l'irruzione sovieticocubana nel Corno e le incertezze del Cono meridionale. Per tracciare questo disegno era necessario togliere dal fianco la spina guineana, ed è stato proprio questo V incarico affidato ad un riluttante Senghor, che poi Giscard in persona verrà a perfezionare. Certo, non si tratta di un quadro privo di ombre. Il suo principale presupposto, che è la ritrovata unità d'intenti fra Parigi e Washington sullo scacchiere africano, n^n è così solido come si dice. E' vero che con l'arrivo di Giscard all'Eliseo la politica estera francese si è molto ravvicinata all'americana, in questo come in altri settori, ma è anche vero che l'ambasciatore Young, nell'accennata occasione senegalese, non ha mancato di criticare la presenza delle forze francesi in questo paese. Lo ha fatto con molta misura, contra"''mente al cliché dell'uomo che scandalizza Washington per il suo parlare fuori dai denti: ma lo ha fatto. Ha detto che se le forze francesi sono qui per distruggere vite umane, la loro presenza è deprecabile quanto quella dei cubani in altre parti del continente. Ora, poiché è ben noto, e del resto lo ha confermato in questi giorni lo stesso Senghor, che i Jaguar francesi partono proprio dalle basi in Senegal per aiutare la Mauritania contro il Polisario nel conflitto sahariano, è chiaro che la critica di Young ha un bersaglio ben definito. Questo delle forze francesi è uno dei più scottanti argomenti dell'opposizione senegalese: « Siamo in un vero e proprio stato di occupazione militare », dice senza mezzi termini l'ex primo ministro Mamadou Dia. « Questa è un'indipendenza soltanto formale », gli fa eco Majhmout Diop, segretario generale del pai, una delle forze dell'opposizione legalizzata. La politica estera di Senghor, del resto, e in particolare la sua politica africana, non è priva di contraddizioni. Proclama l'intangibilità delle frontiere ereditate dal colonialismo, ma non fino al punto da riconoscere lo Stato sahraoui contro l'invadenza mauritana e marocchina. E' decisamente schierato con l'Occidente, ma non fino al punto da condannare l'intervento sovietico al fianco dell'Etiopia nel conflitto dell'Ogaden. E' fautore di una soluzione «neri » per l'Africa meridionale, ma non fino al punto d' assumere una posizione militante sul più grave dei problemi continentali. La stessa svolta politica interna, con l'avvio dell'esperimento pluripartitico, pare destinata a provocare a Senghor qualche grattacapo africano. Quasi tutti i paesi confinanti (fa eccezione il minuscolo Gambia) sono retti da regimi a partito unico. Compresa la « liberista » Costa d'Avorio, da dove è venuto il più curioso dei commenti alla riforma costituzionale senghoriana: « Noi seguiamo con interesse la svolta politica interna del Senegal, ha detto il presidente del parlamento di Abidjan, fermo restando il fatto che a noi sta bene il partito unico ». D'altra parte è visibile, nella stampa di molti paesi della regione, il timore che l'esempio di Senghor, il cui prestigio di padre nobile dell'Africa indipendente è intatto, faccia scuola fino a provocare incontrollabili pressioni interne, fino a minacciare equilibri generalmente precari. Né vale a rassicurare i timorosi vicini, convinti che «molti partiti uguale anarchia », la constatazione che l'esperimento senegalese viene condotto con tanta cautela e tanti correttivi da apparire, agli osservatori più disincantati, «un esperimento senza rischi ». Alfredo Venturi Denunciano le discriminazioni Parigi. Il presidente Senghor in visita a Giscard d'Estaing (foto Grazia Neri)