Foci dialettali

Foci dialettali I— MOTEBELLE 1»! IVI MfiCA -—j Foci dialettali Il dialetto, si sa, è l'Idioma particolare d'una regione, d'una provincia, d'una città, di un villaggio, con particolarità lessicali, grammaticali e fonetiche sue proprie, a differenza dalla lingua nazionale, chr è poi uno dei tanti dialetti parlati da un popolo al quale, per ragioni diverse, è stato riconosciuto il primato e attribuita la dignità letteraria. Alla lingua nazionale, quando essa non possedeva i termini atti a indicare un oggetto o ad esprimere un'idea, i dialetti che ne eran provvisti li hanno forniti in varia misura; ma, tranne questo loro scarso contributo, non hanno dato altro, rimanendo come tante lingue minori di diversa bellezza ed importanza. Non è certamente uno tra i più belli ed armoniosi 11 dialetto piemontese, che fa parte del gruppo gallo-italico con forte prevalenza sul vocalismo dell'accentuazione e con l'intrusione di elementi linguistici di ogni specie — liguri, celtici, latini, longobardi, franchi, provenzali, arabi, ecc. —; esso è ad un tempo chiaro riflesso del suo ambiente fisico, d'una regione aspra di monti, irta di rocce, ove la vita è dura e si tempra nell'azione^ Se non c'è armonia e grazia, c'è forza e Ìmpeto. E a noi, che siamo nati in questo < pois d'omini dur e tutt d'un toc - ma aòt, ma ferm, ma fort còm' i so roc », il nostro dialetto è motivo d'orgoglio. Piace sopratutto rilevare che in esso ci sono parole di un meraviglioso vigore di espressione. Sono quelle che tanto piacevan ai nostri maggiori poeti in vernacolo: Edoardo Calvo, Angelo Brofferio, Alberto Arnulfl, Alberto Viriglio, Nino Costa. Per dire massiccio, compatto, schiacciato, n o i diciamo gnlch o gnech, e 11 verbo schiacciare è per noi il meraviglioso sbérgnarhé. E uno stramazzone è un patagnèch, dove appare quel prefìsso pota, intensivo, che concorre alla formazione di tante altre voci, quali patachin, pezzente, patamòl, uomo inetto, patallea, loquacità eccessiva e tediosa. Specialmente i verbi, nel vernacolo piemontese, sono spesso curiosi ed efficaci. Il ridacchiare o sghignazzare a tratti dando al nervi è sghtgnuflé; il gonfiare dalla voglia di ridere dove si dovrebbe star seri, fin che il riso scoppia irrefrenabile, è s-ciunfé, formato sul nome s-ciùnf che indica il gonfiare e poi esplodere della polenta ormai cotta e da scodellare. Gualcire, malmenare, spiegazzare, da noi, è strafugnó, sciupare, stragasé, mangiare in fretta e furia sicché il cibo quasi ti soffoca o strangola, è strangolò o mangé strangóión. Impiastricciare è anpastròlé, formato sul nome pastròcc, che vuol dire intruglio, pasticcio e simili, come da pacloch, dello stesso significato, s'è fatto paciórhé. E se vogliamo dire che alcuno è imbrattato di mota o d'altra sostanza liquida o pastosa diciamo che è anberltfà, mentre il semplice leccare è 11 vivace berliché, cui corrisponde nella lingua nazionale l'epiteto di Berlicche dato a Satana, che si lecca avidamente le anime del peccatori in disgrazia di Dio. Perchè, se più spesso fra i termini del dialetto piemontese e quelli dell'armonioso dialetto toscano c'è l'abisso, sicché nella lingua nazionale I primi sono intraducibili, tuttavia alcuno ha avuto l'onore di esservi ammesso. II nostro plandròn, che vuol dire poltrone, è usato da bravi scrittori nella forma di pelandrone. Dalla forgia, che corrisponde all'italiano fucina, s'è creato (ma poco opportunamente) il verbo forgiare, in gran voga quando c'era chi forgiava grandi cose, tra cui l'Impero. Il nostro strafarà - stravacato - riappare nell'italiano non più soltanto come voce del gergo tipografico, ma nel senso sdraiato lungo e disteso, con grande forza rappresentativa. E lo sbergnaché di cui sopra ha dato origine ad un verbo, entrato nel linguaggio della caserma, che è sgnaccare dentro, cioè in prigione. Vedremo un'altra volta le frasi, 1 motti, r.cchi pur essi di forzi, d'umorismo e brio. e. m.

Persone citate: Alberto Arnulfl, Alberto Viriglio, Angelo Brofferio, Edoardo Calvo, Nino Costa