La ricerca dell'inedito

La ricerca dell'inedito La ricerca dell'inedito Dopo un breve soggiorno a Capri, mi ero proposto di scriverne qualcosa. Impossibile. Che avrei potuto dire che già non si fosse detto? Certi luoghi, tutti commentati da cima a fondo, hanno assunto ormai la funzione dei gloriosi modelli, come le Gioconde o le Fornarine che gli studenti di Belle Arti copiano nei musei. In un certo senso, Capri non è più se stessa, ma è il risultato di una ininterrotta esaltazione estetica che si è sovrapposta alla realtà. A parlarne occasionalmente si rischia soltanto di falsarne la natura. Luoghi come questi, insomma, sono sempre da vedere, da contemplare, ma bisogna tenersi le impressioni per sè, viverle e non « narrarle », goderle senza giudicarle, con la ritrovata innocenza delle prime scoperte, dei primi viaggi, quando ogni incontro ci pareva meraviglioso, e ogni paesaggio ci sembrava il più bello del mondo. Non rimane, allora, se non la ricerca dell'inedito, o meglio dell'oggetto sul quale la conoscenza non abbia ancora esercitato tutta la sua capacità di distruzione: e non importa che l'oggetto sia troppo umile. Questo ha fatto il poeta francese Francis Ponge, prima con Le parti pris des choses (Ed. Gallimard) e, recentemente, con L'araigvée (Ed. Jean Aubier). In questo poemetto, lussuosamente stampato e incorporato al commento critico di Georges Garampon, il ragno viene «scoperto » con l'amore e la precisione con cui si descriverebbe uno stupendo paesaggio o una persona di alte virtù; e nello stesso tempo viene assunto a simbolo dello scrittore: dello scrittore come Ponge lo concepisce, l'uomo che pazientemente secerne pensieri per costruire la propria tela, cioè l'opera' scritta. Tale concezione della letteratura è definita da alcuni positivistica, materialistica, ma c'è da temere eh» questi termini producano deplorevoli equivoci. Dal Ponge rimane lontana ogni intenzione •ideologica. Egli, più semplicemente, crede che troppo si sia abusato dell'ispirazione, della rivelazione, del genio, del dèmo ne ecc., perchè non sia tempo di consigliare all'artista l'umiltà C convincerlo a far bene quel che sa fare, senza perdersi nei fumi dell'astrazione e delle teo sofie o rabdomanzie letterarie. —Far bene quel che si sa f3re come-il ragno costruisce con mirabile perfezione la sua tela per il più naturale ■ degli scopi, procurarsi il cibo, così lo scrittore dovrà eseguire la propria opera con la maggiore perizia possibile, per attirare il lettore e cdivorarlo» {tee qiCon appelle la gioire », dice il poeta con leggero sarcasmo). « Il razionalismo di Ponge — osserva il suo critico — consiste più che in una dottrina, in un metodo d'espres sione, in un sistema di sfruttamento, nel campo letterario, del materialismo ». Ogni intenzione metafisica, ogni trascendenza, rimangono abolite: « La ragnatela è a un tempo filatura e tessitura, costruzione autentica, tanto nel senso primordiale quanto nel senso attuale della parola: di esistenza phe deve tutto ai prò pri mezzi, e di incontestabile certezza ». S'intende come uno scrittore che abbia scelto questa misura non debba preoccuparsi della durata, e tanto meno dell'immortalità dell'opera. La ragnate la sarà distrutta, per l'intervento del caso: sia la stessa mosca che vi incappa dentro o sia un col po di vento; e così il lavoro dell'artista sarà distrutto dal lettore, in quanto coilui non ne avrà ricevuto se non un'impressione momentanea e soggettiva, del tutto estranea alle intenzioni del creatore. Ma che importa la distruzione? Il poeta, come il ragno, è sempre pronto a ricominciare, e ad applicarsi ancora alla medesima costruzione ( « ... quant à :naì man pouvoir denteare - Et dès longtemps ■ pour l'éprouver ailleurs - j'aurais fini... »). Concezione rivoluzionaria nei confronti delle poetiche fondate sulla presunta indistruttibilità dell' opera d'arte. Concezione tuttavia orgogliosa, come quella di un potere ine sauribile, di una prodigalità da gran signore che non aspetta onori nè ricompense, bastando gli di aver dato nella sua esi stenza terrena tutto quello che -gli era possibile dare. E' un modo onesto, mi sembra, di affrontare la crisi attuale dell'arte. Perchè con esso non si fa violenza alla natura, e l'artista non presume di sostituire se stesso alla creazione; ma neppure abbassa la natura alle sue apparenze immediate. In Tentativi orale, un altro dei suoi libri, Ponge esclama : « Tota vaia mteux qu'une photographie a; e se egli, come '«serva Garampon, assimila l'esperienza, non la « copia », ma la restituisce attraverso immagini, allusioni, incidenze, assiomi, reticenze, ellissi, simboli. L'unpiirtantc c di trasfigurare la realtà, rintracciandola nei suoi aspetti sfuggiti suinamente all'esaltazione i) alla rettiirica: una vespa, una -andela. un bicchiere d'acqua, un'ostrica, una lumaca, e così via Viene spontaneo il raffronto col nostro pittore Giorgio Murandi, questo purissimo artista che ha dato il senso dell'ineffabile, quasi del sublime, ai più modesti oggetti domestici, o a una foglia, a un fiore secco. Come dice Piero Bigongiari in un denso saggio su Ponge (nel vol volume, uscito In questi giorni, intitolato II senso della lirica italiana e altri studi — Biblioteca di «Paragone», ed. Sansoni), «occorreva ridare alle cose il loro respiro perchè le cose ci dessero intatto il respiro della natura; occorreva, in altri termini, che ognuno si assumesse un compito limitato dall'entità concreta delle forme che prendeva a descrivere ». Così hanno fatto tanto Morandi quanto Pónge; e bisogna aggiungere che in questo « ricominciare da capo » sta forse la maggiore lezione dell'arte del nostro tempo.. Ma allora, diranno alcuni, si dovrà parlare del ragno, e non di Capri? (E quante volte abbiamo sentito rimproverare a Morandi le sue « bottiglie » e i suoi « candelieri », e invitarlo a dipingere « uomini vivi » o ad ispirarsi ai grandi sommovimenti sociali...). E' certo che per l'arista un soggetto può valere l'altro; ma è anche certo che i grandi temi appariscono consumati, esauriti, e non si possono affrontare di nuovo se non con mezzi « nuovi », cioè se prima non si è riconquistato il senso concreto della loro essenza, all'infuori di ogni sovrastruttura intellettualistica o scolastica. Di Capri, perciò, sarà forse bene aspettare a parlare quando si saranno del tutto dimenticati gli schemi che generalmente si applicano a descriverne la bellezza; quando lo scrittore non chiederà ispirazioni dall'alto, non sostituirà le proprie presunte divinazioni alla realtà, e neppure tale realtà vorrà immiserire nelle sue più grette apparenze; ma vedrà Capri nella sua presen za e nella sua esistenza, nella sua funzione specifica e nella sua ricchezza simbolica: così come vede un ragno. Quando l'isola non sarà più i incantata », nè sarà più « dimora degli dei » o « ri fugio di stravaganti », allora essa si mostrerà all'artista nel suo tempo geologico, nella sua sublimazione naturale, nella sua pos sibilila rasserenatrice. Ma per giungere a questo, bisogna che lo scrittore si liberi da molte superstizioni, e misticismi, e determinismi, e faustismi. Bisogna che egli non consideri più se stesso come un demiurgo o come un inquisitore: bensì, semplicemen te, come il ragno di Ponge, che costruisce, con pazienza, e senza possibilità d'errore o di diversione, la propria tela; e non pensa rhr la teh debba sussistere oltre le vicende del caso o la smemo ratezza degli uomini. Quando sarà arrivato a questo, l'artista ri troverà la grandezza: perchè non l'avrà cercata. G. B. Angioletti La regina Elisabetta saluta la folla all'uscita di Bucklngham Palaie mentre con la sorella Margaret e 11 marito duca di Edimburgo si reca ad una festa di beneficenza llllllllllEllllllllilIIIIIIIIII1IlllllllllllillllliriIIIIIIIII3IIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIMIIIIIIillIllllllllllllllllt BllllMIIIIIIIMIIIIMllllIIIIIIIIIIIIIIIlilItlIil 1111

Luoghi citati: Capri, Edimburgo