Versaglia

Versaglia Versaglia In uno «specchio dei tempi» di questo mese uno statale torinese deplorava la notizia apparsa sui giornali, ili ricche befane offerte iiei Ministeri alle famiglie degl'impiegati (qualcuna di quelle distribuzioni le abbiamo poi viste al cinema), mentre i dipendenti degli uffici periferici] erano stati lasciati all'asciutto. La lagnanza era giusta, e spero sarà tenuta in conto. Il bilancio statale ha tali risorse, tali pieghe, tali saccoccie occulte, tali residui e possibilità di storni — come resterebbe attonito, se risuscitasse, un ragioniere generale dello Stato del 1915 — che sarà ben possibile per la befana del '58 ricordarsi anche degl'impiegati delle Prefetture, delle Intendenze, del Genio civile. Ma l'episodio così piccolo portava a rimeditare sul profondo mutamento in un terzo di secolo non solo del costume, ma dell'intima struttura italiana: quella che non s'insegna nei corsi di diritto costituzionale, ma che è poi la sola che conti. L'Italia della prima guerra mondiale era ancora « l'Italia delle cento città ». Negli addobbi di orrido gusto ottocentesco che subiva la capitale all'arrivo di ogni sovrano straniero venivano fuori i pennoni con lo scudo ed il nome delle cento città. Retorica, che adombrava però la realtà di un'Italia decentrata e che aspirava a restarlo. Tutto vi concorreva: anche lo spirito antifrancese e l'ammirazione della intera classe colta per la Germania, Paese decentrato, che aveva a Berlino la capitale politica, a iMonaco, si diceva, quella artistica, a Bonn ed Heidelberg le famose università, a Lipsia il tribunale dell'impero, nelle città anseatiche i grandi centri commerciali. I vari uomini di governo che si succedevano al potere avevano una città diversa da Roma cara particolarmente al loro cuore: tutti, da Lanza e Minghetti fino ad Orlando e Nitti. Avveniva a momenti che il foglio dove si cercava la nota politica significativa fosse là Sentinella delle Alpi di Cuneo od il giornale di Brescia, se erano al potere Giolitti o Zanardclli. Crispi nell'estate del '70 aveva mosso cielo e terra perché l'Italia andasse a Roma; ed aveva il senso della grandiosità; già con Vittorio Emanuele II lamentava che Quirinale e Montecitorio fossero sedi indegne per la Reggia ed il Parlamento, che non ci fosse a Montecitorio un Crono stabile in bronzo ed oro come c'era ad Westminster (ed il Re rispondeva, come avrebbe risposto Einaudi: «Come si fa con la carta-moneta? »); Crispi voleva la capitale con le sue strutture loziuninlicoscsagEEilnnpEstbtafedsptepecloaeaati vdcsgi giidccBtsciibldrdnstdzsgq•i speciali; ma in ronro amava noni , i d«i.™„ „,„ vi ■: ssolo Palermo, ma pure Napoli dove trascorreva i periodi di riposo, assai più di Roma; ed era sincero quando nel marzo '81 difendendo alla Camera una legge speciale per Roma, evocava Napoli, Firenze, Milano, Torino, Venezia, « e tutte infine le cento città, le quali hanno una vita, una storia, un passato che Ironia stessa rispetta e che non potrà mai turbare ré annientare. E' una fortuna per la nostra penisola di essere coronata di tante gloriose città, il che ci porta ad un grande beneficio che non ci fa temere né le rivoluzioni, né i colpi di Stato. Se mai in Roma il popolo sorgesse per imporre all'Italia un Governo di suo gusto, tutte le altre città si ribellerebbero, e verrebbero a conquistare Roma ed atterrarla.» (visione di una Italia 1848: ma la realtà della Italia decentrata superava tale visione). Purtroppo a Mussolini nessuna città era particolarmente cara. Solo Milano gli aveva arriso, ma con contrasti; e non vi era vis- suto abbastanza a lungo per es-ìservi davvero radicato. E ncssu- no più di lui era suscettibile di soggiacere alla suggestione degli archi e delle colonne, ed anche alla deteriore rettorica della romanità, come ai più pazzeschi progetti urbanistici a base di colonnate, obelischi, fontane monumentali susseguentisi senza fine, e senza preoccupazioni dei problemi reali dell'urbanistica Così tutto si accentrò alla ca- -1 -i r* „j- i- 1 pitale: il Credito Italiano; le so-hcietà di navigazione, l'officina carte valori: enti, uffici, co-mandi. Dopo il '45, non vorrei offendere alcuno, ma l'Italia non ebbe più governanti che sentissero lo Stato: forse l'Europa, certo il partito; forse gl'italiani, ma la struttura giuridico-economica dello Stato, no. Questa fu abbandonata ai capidivisione; e per questi, dovunque nati, l'accentramento coincide con il potere; ed ogni uomo ama il potere. Né gl'italiani reagirono nel solo modo in cui sarebbe stato virile reagire: non con i campanilismi, col mal volere delle regioni più ricche verso gl'italiani delle regioni più pove/c che picchiano alle loro porte; ma richiedendo autonomie. Proprio l'aspirazione all'autonomia mancò dov'era più da attendersela, in quelle provincie dove sempre si era più detto male della burocrazia, cui nessun giovane accor- reva, dove più si era a parole oppugnata la centralizzazione ro- _ vt • • u mana. Non ci si batte per avere li regioni piemontese, ligure, l i o e e a a e lombarda, con quante attribuzioni possibili; i Comuni non si unirono, oltre i partiti politici, in leghe, per chiedere possibilità d'iniziative, abolizioni di controlli, anzitutto il diritto di scegliersi i loro segretari. Si è così ricostituita una Versaglia: manca il re sole («Ei la gloria e il valore, egli le scuole E l'armi, ei l'arte ed ei la verità, Egli era tutto in tutti: egli era il sole Che il mondo illustra, e non s'accorge e sta»), ma ci sono in ogni ufficio, in ogni ente parastatale, centinaia di solicini. Ed ogni funzionario, ogni magistrato, ogni ufficiale, sa che è bene restare vicino al sole, allontanarsene il meno possibile: non feudi o pensioni di grazia, come dava il re sole, ma sinecure, splendidi alloggi in proprietà ottenuti a condizioni di favore, j dporte aperte ai figli negl'infiniti vretdcrdptisnsidgbzgi mrlenti a partecipazioni statai;. Anche negli alti uffici, guai ad allontanarsi dalla capitale a lungo, a farsi dimenticare: è opportuno essere proconsoli il cui ufficio alla periferia non duri oltre un anno: se no resta chiusa la porta id ulteriori fortune. E come i grandi finanzieri, gli arditi navigatori, i creatori di colonie dovevano venire ad impetrare i consensi a Versaglia, e riverire se non il re sole, qualche cortigiano che ne avesse 1 favori, così i grandi uomini di finanza, i grandi industriali, ben sanno che il più abile progetto può essere infranto dalla ostilità di un capodivisione. Gli Stati Uniti con la capitale che non è una delle maggiori città, con New York. Chicago, Boston, San Francisco che tutte tanto pesanoj nella vita del Paese, sono Stato-guida in molte cose, non nella nostra struttura. Nulla obiettivamente di male in ciò. Come per gli uomini sono infinite le vie che conducono al bene ed al male, così per le collettività, molteplici sono le strade che portano ad un medesimo risultato. Ci può essere un grande Stato tutto accentrato intorno alla capitale. Ma nella vicenda italiana si sente che c'è qualcosa che non torna. Non solo la resistenza della capitale alla industrializzazione (che non ha Parigi), ma pur il dato che i maggiori giornali, le maggiori case editrici restano fuori; possono sedere a Roma i direttorii dei partiti, ma ciascuno ha una massa di rrìanovra che si accentra in date regioni. La centralizzazione serba qualcosa di artificioso, resta semr pre e soprattutto burocratica. Dò ragione a Benedetti quando afferma che la Roma pacioccona di Baldini svanisce (anzi è già svanita), ina non convengo che Azercgpari svanisca quella impiegatizia. Né ni ^ , , . : scorgo una meta che si profili i a a , o alla irrequietudine di una massa d'immigrati oltre la legittima mèta di ciascuno, di campare la vita. Oggi siamo tutti europeisti. Né certo mi sento nazionalista io. Ma l'europeismo di molti mi ! 1 iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiitiiiiiiiitiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiS davvero si formi, la mia fiducia va alla periferia, non al centro. ricorda lo scetticismo profondo, e forse errato, di Giustino Fortunato per tutte le classi sociali del Mezzogiorno, e la sua fiducia, in un certo periodo, di un risanamento del Sud che venisse dal funzionario settentrionale. Siamo pure europeisti, ma proponendoci di portare in una futura consociazione o federazione il Paese più sano, più vivo, che sia dato pensare. Un Paese dove non tutti potranno avere le stesse mète, ma ogni gruppo avrà idee chiare, avrà rinnegato la pigrizia mentale delle formule nebulose, avrà una sua pianificazione con le tappe da raggiungere nei successivi momenti, con i mezzi da usare. E per la formazione di questo Paese, nel periodo che ancora resta prima che la consociazione o federazione Ad una rivendicazione delle funzioni di governo, di direzione economica e culturale, del diritto ad operare liberamente in casa propria, da parte di quei gruppi, di quelle regioni, che possono fare da se. dare e non attingere al fondo della solidarietà nazionale. A. C. J e molo