Suor Emanuela

Suor Emanuela Suor Emanuela Dietro il refettorio c'era un corridoio sbarrato da un muro di mattoni simile a anelli che in tempo di guerra chiudevano le cappelle di certe chiese adibite a magazzino di foraggi — nniri che restano come appoggiati alle antiche muraglie, divisi da esse da una fessura che corre tutto all'intorno. Dal pavimento fino alla volta affrescata s'alzava questo muro, e in esso, all'altezza di un uomo di normale complessione, c di conseguenza troppo alta per noi ragazzi, si apriva una finestrella, una specie di nicchia o bussolotto munita di un curioso congegno girevole che permetteva a due persone che stessero di qua e di là dal muro, di comunicare tra loro senza vedersi. Fin dalla prima sera ch'ero entrato in collegio, Don Andrea, accarezzandomi e stringendomi le spalle, con quei modi melliflui che hanno i prèti coi ragazzi per ingraziarseli, me l'aveva indicata col nome di ruota della biancherìa. M'insegnò che quando avevo bisogno di biancheria pulita, dovevo andare là, alla finestrella, schiacciare col dito il bottone del campanello, o dire poi alla suora, quando si fosse presentata, cosa volevo. Mi spiegava tutto questo armeggiando con le sue grosse dita intorno al campanello, ma senza toccarlo, perchè a quell'ora tutti dormivano, e anche le suore, là in fondo. Così facevo, ma di preferenza nelle ore in cui il corridoio era vuoto : premevo il bottone e aspettavo. Dietro il bussolotto di legno uno scalpiccio moltiplicato in echi minuti svegliava una vastità silenziosa, s'avvicinava facendosi più distinto, e con esso un fruscio di ampie vesti entro le cui pieghe si sminuzzava il tintinnìo di un rosario urtato dal ginocchio a ogni passo, e forse anche di piccole chiavi. Cessato, ma non del tutto, il fruscio, una voce chiedeva: « Numero? ». E dopo che io avevo detto il mio numero calmo, senza fretta, cortese, quasi che dietro quel numero ci fosse il mio nome di battesimo e la mia faccia, chiedeva ancora: « Cosa desidera? », Una voce di donna. Così femminea che subito si vestiva di quel fruscio leggero come il respiro. Un lungo pezzo di corridoio, ampie stanze inutilizzate, la guardaroba, la lavauderia, la cucina separavano il collegio dal luogo « là in fondo », dove le suore dormivano. Le loro cellette dovevano essere della stessa na tura del muro divisorio, provvi sono come nidi di rondini. Do veyano essere ben in fondo; e chissà se arrivava fin lì il baccano del cortile nelle ore di ricrea zione. Forse solo un brusìo appo na percettibile, una vibrazione che animava il silenzio. Quando, certe sere di domenica, ci conducevano a passeggio e il vecchio convento restava vuoto, penso che un silenzio assoluto e grave doveva dilagare fino a quella parte segreta del convento. Forse, in quelle ore, le suore si mettevano ad aspettare il nostro ritorno. Di mattina, molto presto, uscivano da una piccola porta accanto alla ruota dei piatti, in un angolo del refettorio, e andavano in cappella a. sentir la Messa. Nei fiori disposti con ordine sull'altare, nelle bianche tovaglie di cui esso era parato, nel lindore di tutta la cappella, che contrastava con la poca cura con cui eran tenuti tutti gli altri locali del collegio, in cui le suore non mettevano mai piede, era il segno delle loro mani laboriose. Attraversavano il cortile con le mani nelle larghe maniche, la testa bassa, le ampie vesti turchine, le cuffie alate, candide, mentre noi dormivamo ancora. Erano piemontesi come Don Adrea. e come lui dovevano avere nel viso il colore che ha la gente venuta dalla terra e che ha conservato le buone abitudini contadine; ma nel prete questo coloro di salute eccedeva alquanto, benché egli non bevesse che latte, a tavola, e forse gli veniva da quel suo frequente e furioso soffiarsi il naso, che faceva sì che egli non arrivasse mai inaspettato. Essendo vissuto sempre con mia madre e con le zie, cresciuto tra le loro cure, per la prima volta sentivo il disagio di vivere in un luogo in cui c'erano solo uomini. La nudità dei grandi stanzoni e dei corridoi pieni di vento, la rudezza con cui abitualmente venivamo trattati dai superiori o le loro goffe carezze, mi facevano sentire la crudele segregazione della nostra vita da quella delle cinque donne. Forse fu questa la ragione che mi diede il coraggio di dire a mio padre che volevo lasciare il collegio. Sentivo acuta la nostalgia della casa e della campagna,, specialmente nelle ore di studio, che erano le sole di vera e propria solitudine. Tutto il resto della giornata, in mezzo agli altri ragazzi: in cappella, in refettorio, in classe. Le ore di ricreazione, quando non mi buttavo anch'io nei giuochi con furia, erano ossessionanti. Che grida, in quel grigio cortile quadrato, che corse pazze per gli androni ! I superiori passeggiavano senza curarsi di noi. A studio arrivavamo stanchi, e Don Luca diceva: « Ora state cheti, che devo studiare anch'io». S'avvolgeva nel suo mantelloue nero, e dopo un poco dormicchiava con una mano sulla fronte, fingendo di leggere. Nessuno fiatava. Sembrava che ognuno sentisse il bisogno di neutralizzare la presenza degli altri intorno a se. In quello ore, io riuscivo a di: menticarmi completamente dei miei compagni e del luogo in cui mi trovavo. Erano ore di studio proficuo, quelle prima del pran zo; ma guai se mi distraevo, se l'attenzione si sviava, anche per un momento dall'equazione alge briea che stavo risolvendo, dalla proposizione che traducevo. Se i fruscio della pioggia mi faceva pensare a un albero, per esem pio, che avevo visto chissà dove e chissà quando sotto la pioggia, con tutte le sue foglie grondanti e lucide, piegate a volte da goccio pi il grosse che cadevano dalle sovrastanti, anzi colpite da que¬ stvLeqmimdstcocaesauvClivpsppacpsamtinnnttlsdcddvlfcsfdcmreidbdclcmsme6cptAcs—radmtinnrlt o a a i o o o e o a a i o e a o e a a a n . e e o e ste goccie, e rivoletti che scendevano lungo i rami bruni e la corLeccia rugosa del tronco, ecco che quest'albero era presente come mai nella realtà era stato. Le immagini che mi nascevano così di dentro erano piene di uno straordinario potere generativo, così che altre ne sorgevano accanto, e persistendo cessavano di essere quasi fortuitamente una accanto all'altra, diventavano un'immagine sola, un luogo che viveva nel fruscio della pioggia. Correvo lontano, ben lontano dai libri con la fantasia. Allora scrivevo a mio padre che venisse a prendermi, che non volevo più saperne del collegio. Quella solitudine artificiale era piena d'intimità. Si comunicava pian, piano agli oggetti che mi appartenevano e che io solo toccavo: libri, quaderni, penne, lapis, ecc. Mai come allora sono stato geloso delle mie cose. Guai a chi le toccava ! Tutto il resto mi era estraneo, cose e persone, tranne il luogo « là in fondo », in cui abitavano le suore e che non avevo mai visto; tutto estraneo e odioso. Su quel luogo che non avevo mai visto invece fantasticavo e gli attribuivo i caratteri d'intimità che avevano i luoghi che amavo e nei quali desideravo tornare. Avevo sentito diro che nel cortile delle suore c'era la legnaia. Questa parola dormì dentro di me fino a quando, una sera, chissà come, arrivò nello studio un odore vivo di leena bruciata, familiare e confortevole per me. Allora vidi un cortile come tanti ne avevo visti in campagna, con i conigli, il forno, il pozzo: tutto in quell'odore di legna bruciata. Questo cortile nacque quadrato nella mia immaginazione. Invece nella realtà, come vidi poi, era lungo e stretto. Una volta, che andai in Direzione a prendere un quaderno nuovo, affacciatomi a un balconcino vidi la legnaia sotto di me. Era una catasta di ciocchi addossata al muro quant'era lungo. Saranno state quaranta carrate. Tra la catasta e l'altro muro, appena uno stretto passaggio. Nel fango c'erano pedate minute di donna, e. più marcate e pesanti, quelle di due grosse 6carpe ferrate. Accanto al cancello, un ceppo con una scure piantata, e tutto all'intorno, per terra, un minutame di schegge. Allora mi ricordai di certi colpi che udivo la mattina, quando mi svegliavo prima della campana — colpi secchi, colpi di scure (li riconoscevo ora) che restavano astratti, sospesi nell'aria. Come diventò più concreto, da quel momento, tutto ciò che andavo fantasticando intorno al luogo < là in fondo », che le suore abitavano! Quando suonavo il campanello della ruota della biancheria, sapevo la distanza che percorreva la suora per arrivare alla finestrella. Essa' aveva lasciato la guardaroba piena del tepore dei ferri da stiro e dell'odore ben noto della biancheria stirata. Ora, ritta dietro la finestra, aveva detto: «Numero? », con la sua voce giovine e freddolosa, e aspettava. Secondo che il congegno della ruota era manovrato dall'interno con più o meno attenzione, si poteva vedere da una fessura il viso e la mano della suora. Quando lo vidi, inaspettatamente, per la prima volta, mai viso di donna mi era apparso più bello. Tanto bello da provarne commozione e struggimento a pensarci. Certo essa mi vedeva, dal di dentro, perche sorrideva. La sua bellezza era forse nell'essere ella di una razza diversa dalla mia, e nelle bende che, incorniciandole il volto, davan rilievo a questa diversità. Vedevo il suo viso attraverso una fessura, ma ripensandoci poi mi apparve come l'immagine di una santa, nella nicchia della ruota. Ora quei tratti, che sono rimasti impressi indelebilmente nella mia memoria, non conservano altro che la dolcezza del sorriso. Doveva essere un viso di contadina, credo, come le altre, piemontese, robusta e sana, ma pallido, a differenza di quello delle sue compagne, non essendosi ancora avvezzata al chiuso del convento. Pallide, come di una santa o di una martire, eran le labbra e piuttosto grosse. Perfino le gengive erano pallide: perchè il suo sorriso largo ingenuo le scopriva un poco. La mano, appoggiata alla ruota, era grande, e recava le tracce del sapone e del ferro. Giuseppe Dessi Il Il Il INI NI III II! I 1 I Dietro le prime linee: una carica di petardi è pronta per abbattere l'albero che cadendo sbarrerà la strada

Persone citate: Giuseppe Dessi, Suor Emanuela