I vivi e i morti

I vivi e i morti I vivi e i morti « Su, svelto, andiamo, e di buon passo, « che la via lunga ne sospigne » e più, dentro, una lieta forza che è impaziente di arrivare. Oggi è il giorno della visita annuale al Cimitero dei miei, e non so dirti come questa ricorrenza mi piaccia, come ne affretti coi voti il ritornare. Mi sento, non so, l'animo di uno scolaro in vacanza, sulle mosse per una scampagnata: ma che scampagnata eccezionale è mai questa per me, quali cose e quali sensi mi aspettane* lungo il noto cammino... Pères profonds, tétes inhabitées... Quale strana impressione a immaginarli. Per quelle forme son passato io pure, in quegli scheletri abitò, dietro quelle fronti volle, per quelle cave orbite vide, inconscio di sè stesso, il mio principio — prima che si incarnasse in questo corpo, in questa mente; ed ora, che sono diventato così io, questi miei antenati, è strano, mi appaiono a volte abbastanza stranieri. Perchè vado a trovarli? che cosa, in fondo, ho in comune con loro? Mi sembra di essere sempre esistito, di essermi fatto da me, eppure... più vado avanti, più mi distacco anche da me stesso. Non ho quasi più « amor pro- Ì>rio », mio caro : altro che ringaluzzire di essere io ! Questo legame della famiglia è davvero bizzarro, ed il filo che unisce le generazioni com'è tenue, ma infrangibile insieme. Gesù Cristo diceva : lasciate il padre e la sposa per seguirmi; ed alla Madre sul Calvario : donna, non ti conosco. Era il figlio di un Dio; noi demiurghi intanto accettiamo la famiglia, e la storia, e questo filo che ci lega, ininterrotto, di cordone in cordone ombelicale. Filo che si snoda bizzarramente nello spazio e nel tempo, gomitolo il cui capo sta in mano alla Parca, e lo svolge — sono direzioni ben strane quelle che si propagano, di padre in figlio, così : come si tagliano, come si rincorrono, come salgono e scendono, ora in piena luce di ascesa, ora nell'ombra delle decadenze; a risalirlo, rimonti fino all'origine dei tempi e trovi chi sa quali parentele, chi sa quali vicende. Ogni famiglia ha la sua storia e, credi pure, non bisogna lasciarsi impressionare se non tutti si chiamano Absburgo, o Borbone, o Savoia; ciò nel magico non ha molta importanza. Ciascun uomo è un Giovanni XVII che viene da un XVI e prepara un XVIII ; ciascun uomo e un re in pectore, e ha sotto mano, per poco che voglia, un suo dominio personale da conquistare. Ora, qual'è quel re che non si preoccupi della sua dinastia? e quale dinastia non ravvisa nelle tombe un suo centro, un simbolo, una sede? » # Ed il mio centro è questo — guarda — la mia strada ! parte dalla città traversa un fiume, assalta i colli; asse della mia vita, traiettoria privilegiata fra le tante che seguo, uni sce la mia casa di vivo alla mia di mora futura e sempiterna : come vuoi che non l'ami? che, a percorrerla, non mi commuova un poco? Guarda, la mia patria carnale, com'è incisa e fortemente rilevata, com'è bella: questa veduta intorno fu per tanto tempo l'orizzonte dei miei, questa terra fu da loro concupita; e se non era un feudo era la gleba. Terra da feudi, veramente, guarda, così tutta a cocuzzoli, a perdita d'occhio, da averci ognuno un bel castello; e chi sa, forse l'idea mi è ve nuta di qui, far tutti re, nel modo magico, anche se ciascun uomo non possa avere un suo cocuzzolo, visto che gli uomini son molti e i cocuzzoli, ahimè, pochi. Ma il Cimitero, invece, è in una conca, come meglio si addice a chi non ha più nulla da ?;uardare: oh, una conca poco prò onda, una di quelle infinite ondula' zioni dell'ameno altipiano, quasi crateri pieni d'aria azzurra (tanto sono dolcemente svasati) cui sovrastano groppe appena appena. « Doline •», le chiamerebbero nel Carso ; ma qui è diverso, e più lieto ; e tutto il Mon ferrato è un mare ondoso, una ca valcata ciclopica di groppe impenna ta di botto, là, al varco padano; un gregge immenso, là fermo impietrato, in vista dell'Alpi. E' un gran bell'altipiano, questo mio Monferrato, tutto pieno di sole; un po' troppo calvo, forse, e ricco più di vino che d'acque; ma però, d'estate, quando l'arsura spacca il tufo e asciuga i pozzi, la neve è in vista e fonde, fonde, misteriosa cola laggiù, in seno alle grandi Alpi : e, come un presagio di fresco autunno, un fiato gelido, un fiorire di colchici su prati arsi — consola. Un bell'anfiteatro, in faccia al palcoscenico dell'Alpi ; posto eminente, balconata di platea, che so? per lo spettacolo guerriero che nei secoli si rappresentò nella pianura: scender dall'Alpi gli eserciti, azzuffarsi; e qui, dai buoni posti, si vedeva tutto, ogni altura era una specola, ogni castello un semaforo, alto sul mar rappreso dei colli Il mio Cimitero, lui, no, è in una conca, non vede niente; raccolto in pace, tutto quel chiasso non fa più per lui. Solo Superga, il più illustre dei cimiteri monferrini, si estolle; e li sorveglia tutti, i suoi morti, e dà la sera il buon saluto a tutti ; e quei romiti, qua, là nell'ombra già perduti, guardano a lui, ancora tutto splendido e corrusco di sole, poi si addormono fidenti, come soldati in campo, quando il capo veglia. Beati qui in Domino moriuntur. L'esercito ch'era in piedi ora è sotterra, sempre in ranghi fedeli allineato. Per quanti secoli siamo stati insieme! i Savoia nelle loro tombe eccelse, e noi qui nelle nostre: dopo le guerre si tornava, loro alla Reggia e noi ai campi. E Torino cresceva, eia Reggia tentava, e, prima i baroni dai ca- apanm stelli emigrarono, poi anche i villici si lasciarono sedurre. O miei avi imprudenti, anche voi foste del numero; la famiglia, da tanti secoli aggrappata qui come un'ostrica, chi sa per qual miracolo, si mosse : e se un nipote in gamba,' ritornando fedele alle sue origini, non ristabilisse l'equilibrio, ahi ahi, temo che l'urbanesimo conterrebbe oggi altre vittime, vanterebbe altri misfatti. #** E sì che non mancavano gli esempi ad ammonirvi! Guarda quella lapide sul muro della cappella — quella, là, la più antica, dalle parole mezzo cancellate : Federico Monti ecc. Deputato al primo Parlamento subalpino ecc. Non è mica poi passato tanto tempo per cader così in rovina, nemmeno un secolo, in fondo; ma gli è clic nessuno più ne ha cura. E' il nome più illustre del Cimitero, fu la famiglia più cospicua del paese; dei tempi nuovi, intendo, dopo che i Marchesi si estinsero, e il castello andò distrutto. Fattori un tempo dei Marchesi, chi sa? dopo la Rivoluzione salirono: ebbero case in Asti, in Torino, e qui la villa, dove tornavano destate; e poco mancò che noi, poi, la comprassimo. Noi fummo i terzi, li seguimmo a ruota; mentre ora dei quarti lassù in paese già incalzano, che a mia volta io non conosco. « Deputato al primo Parlamento subalpino »... pensa, conobbe Cavour, e il Parlamento era un bel club di borghesi. E ora voltati, guarda quell'altra lapide là in fondo : Alla Donna forte Anna Bagiarini Monti... Fu l'ultima donna della famiglia ed ebbe un figlio, infermo, che io vidi, fanciullo, qualche volta errare, sempre solo, sotto i portici di Piazza Statuto; e con lo sguardo io lo seguivo avido, fantasticando, a mano della mamma che mi raccontava i fasti di casa Monti. In poco più di un secolo la loro vicenda fu compiuta. Erano signori distinti, un po' tristi e riservati, venivano quassù d'estate, in lemdau probabilmente: agli ultimi di giugno si andava, allora, in campagna, e quasi tutti alle ville, che le ciliege rosseggiavano ancora; poi le susine, le albicocche, le pesche, giù giù fino all'uva, tutte le frutta d'estate dal giardino recate in vassoi colmi; colte sul posto, come allora usava. Solo, talvolta, un po' d'acque l'autunno — Terme d'Acqui, di Salice, la Certosa di Pesio, forse già Salsomaggiore; ed era tutto. Spiagge e monti eran deserti. Tutt'i lunghi mesi del' solleone, con la luce, fuori, accecante, che calcina i muri, incendia i campi, abbarbaglia le strade — passarli qui, pensa, sepolti nelle camere profonde: persiane chiuse, zanzariere sui letti, sui vasti canapè la siesta, ombre avvolte nell'ombra; e un filtrar vago di raggi, un ronzare di mosche punteggiar !'afa. E leggere, e sognare, ed aspettare — le signorine — chi sa? l'autunno cortese e triste, quando alle cicale seguono i grilli, ed al loro richiamo è dolce uscire, che si fa sera ; e tu vai per le strade senza fine sulla cima dei colli, e senti intorno a te crescere il coro dei cantori notturni, e i passi levar l'ali, mentre anche i tuoi pensieri si fan canti. Forse l'autunno porterà lo sposo... Povere donne dei Monti ! la loro sorte soprattutto mi accora. Maritate Garbiglia o Bagiarini, spose e madri, eppure, per me, è come se fossero morte fanciulle, non so vederle che così, aspettanti : rivivere quei sogni loro, e un tempo, anche, (quando il sangue era più caldo) vagheggiar quelle forme, violare i segreti di voluttà della razza che precedette la mia. Così fini com'erano, che pena che sian morte, ch'io non possa raggiungerle, salendo nel tempo, ritrovarle intatte, come la bella della favola, sui loro letti di allora distese, in una di quelle sere di settembre, che mai la luna è più bella : e quei canti dalla finestra aperta, quel mosto nei tini... come fa il sonno a venire? Il sangue ingentilito tornava ai luoghi del suo nascere, carico di succhi e turbamenti chi sa come, chi sa dove appresi, in quell'ascesa della razza; e stanco. Le donne della mia famiglia, ancor rozze, guardavano passar quelle gentili. A loro solo i canti e le danze sull'aia, e a queste invece note languide di pianoforte, e missive aulenti, e visite spiate e susurrate. Maritate Garbiglia o Bagiarini, spose e madri... sì, tutto quello che vuoi, ma erano tristi, ti dico; non erano mica damine in guardinfante, nè ragazze sportive, eran fanciulle in crinoline, mio caro. Stai come rapita In un cantico: lo sguardo lai cielo profondo e l'indice al labbro, secondo l'atteggiamentoI romantico Erano tristi di quei tesori non goduti, oppresse dall'effimero splendore di quello sboccio; diventar madri fu morire un poco, come quelle foglie che cadono prime, quei fiori che a maggio già si sfanno, mentre così dolce è vivere ancora. L'albero che era in loro, e dava frutti, guar dava quella sua foglia staccarsi i volteggiar lene per l'aria, la rosa sfarsi, la fanciulla morire a poco a poco : era la madre, era la nonna che avanzava dal futuro, il bel corpo che sotto i loro occhi mutava. Meglio, sì, morir d'inverno, ma dolce, a maggio, pensar di morire, le carni intatte, sigillato il caro mistero che nessuno penetrò, il frutto che nessuno ancora colse; e la morte pietosa scioglierle senza pena e senza orrore, come scioglie qui le rose dei cimiteri, che nessuno coglie e sfioriscono così, una foglia dopo l'altra, per terra : l'erba le accoglie e la pioggia le bagna, due, tre volte le trova, poi la tinta è svanita e la spoglia dispersa. FILIPPO BURZ10

Luoghi citati: Acqui, Asti, Carso, Monferrato, Torino