Seneca

Seneca Seneca E' durante il medioevo che le grandi figure della Roma imperiale — di un passato, cioè, vicino e remotissimo a un tempo — si aureolano di luci leggendarie, è allora che ingigantiscono le nefandezze dei cattivi imperatori, e i saggi e i poeti, come Virgilio, si tramutano in maghi. La più grande e la più nota di queste leggende, durata sino ai giorni nostri, è quella che fa di Nerone un mostro spaventevole. A essa, com'è noto, contribuì potentemente la tradizione cristiana che trae origine n qualche modo dall'Apocalisse di San Giovanni e identifica Nerone addirittura con l'Anticristo. Ora, parallelamente a questa leggenda e quasi in contrasto con essa, nacque e si diffuse quella di Lucio Anneo Seneca, il saggio virtuoso e incorrotto, il maestro austero e severo di Nerone costretto a uccidersi dal discepolo, pel quale la sua sola esistenza era un perpetuo rimprovero. 11 popolo ama questi contrasti, questi giochi violenti di luce e d'ombra; nel caso specifico la leggenda fu spinta sino alle estreme conseguenze : Seneca divenne il corrispondene, l'amico di San Paolo e si parlò Eersino d'una sua più o meno proabile conversione al Cristianesimo. La storia è molto diversa, è, oserei dire, quasi agli antipodi di queta leggenda benevola e glorificatrice. Esiste infatti tutta una tradizione ostile a Seneca, che risale probabilmente alle per noi perdute Storie Civili di Plinio, e si estende agli storici greci e latini in genere, i quali paiono trascurare di proposito il soo scrittore favorevole al maestro di Nerone, quel Fabio Rustico la cui estimonianza parve sospetta a Taito come quella che veniva da un amico di Seneca. Tuttavia Tacito, pur mantenendo nei riguardi di Seneca un atteggiamento spoglio di impatia, ne parla sempre con ripetto e dedica alcune tra le più bele pagine degli Annali a descriverne a morte; per cui non si può dire che vi sia in lui un vero partito preso contro il filosofo, ma soltanto, semmai, una sorta di diffidenza verso 'uomo che aveva educato Nerone e ne era stato per circa otto anni il ministro. E' in Dione Cassio che si trovano raccolte la maggior parte dèlie ccuse contro Seneca ; Dione, tra altro, giunge ad asserire, sulla bae di testimonianze ch'egli dice « numerose e degne di fede », essere stao Seneca a spingere Nerone al maricidio per renderlo odioso agli dèi agli uomini. Ora, Seneca non ha bisogno d'esere purgato da accuse di questo genere sulle quali la critica storica si pronunciata da gran tempo. L'esame del problema di Seneca non tende dunque a una riabilitazione, che arebbe assurda, ma tutt'al più alla piegazione e alla chiarificazione di aluni atteggiamenti del filosofo che più sembrano contraddire alle teoie espresse nelle sue opere. E a coneguire questo scopo nulla può esere più efficace di una biografia ragionata e condotta senza preconceti, che non' perda mai di vista gli critti senechiani la cui cronologia, econdo il Gercke, costituisce la cronologia della vita stessa di Seneca; e in questo campo il libro di Conceto Marchesi (Seneca - Giuseppe Principato, Messina-Milano, 1934). he a quattordici anni dalla prima dizione riappare oggi notevolmene emendato, è indubbiamente quano di meglio si possa desiderare. La vita e la dottrina di Seneca sono dal Marchesi studiate^come i due aspetti di una sola realtà che, anziché contraddirsi, come, da Dione in poi, pretendono i detrattori del filoofo, si completano a vicenda. La parola di Seneca è tra le più alle e nobili che siano risonate nell'antichià, tanto è vero che molti scrittori cristiani non la ripudiarono : ma esa addita una vetta di perfezione morale che l'uomo, con le sue deboli forze, può soltanto aspirare a raggiungere, ma non raggiungerà mai. Prima di Leopardi, Seneca sembra rendersi conto di come non vi sia nessun segno d'essere poco filosofo e poco savio, che volere savia e filosofica tutta la vita. D'altronde, l'ideae d'ascetismo integrale e di rinuncia definitiva e totale ai beni della erra, quale, di li a qualche secolo, sarà realizzato dai monaci cristiani della Tebaide, non era tale da lusingare lo spirito equilibrato e realistico di un romano. Si aggiunga che Seneca — contrariamente all'opinione di Epicuro — riteneva che il saggio non dovesse rimanere estraneo all'attività sociale. 11 Marchesi mete giustamente in evidenza questo mportantissimo punto della dottrina senechiana attraverso^ le parole stesse con cui il filosofo, nel De ranquillitate animi, stabilisce quale debba essere la condotta del saggio nel campo dei pubblici affari. 11 saggio, afferma Seneca, deve in ogni modo cercare d'essere utile allo Stao : se gli è interdetta la milizia, chiederà gli onori civili; se gli saranno negate le cariche, si farà oratore o aiuterà i cittadini con tacita assistenza ; perduti i diritti cittadini, eserciterà quelli dell'uomo. « Anche con le mani tagliate in battaglia si può servire tenendo il proprio posto e aiutando gli altri con le grida ». E come agli oneri, cosi il saggio non si sottrarrà agli onori che ogni carica pubblica porta con sè; la sola differenza tra lui e l'uomo comune starà in questo : che mentre l'uomo comune è schiavo delle ricchezze e degli onori acquisiti e trema continuamente di vederseli rapire, il saggio considererà tutto quello che possiede come un di più che può essergli tolto dall'oggi al domani e si abiuerà in anticipo all'eventualità dele più grandi rinuncie. Uomo di modi onestamente piacevoli — così lo descrive Tacito —, Seneca non ha dunque nulla del mo- ralista quacchero. Indulgente con sstesso, egli doveva, all'occorrenzasapere essere indulgente con gli altri. Possiamo supporre — e alcunepisodi della sua giovinezza ci autorizzano a farlo — ch'egli si compiacesse del commercio coi suoi similidal quale è probabile che il suo spirito, aiutato dalla disincantata ironia che talune frecciate di gusto affatto moderno contro i filologi e più an cora l'insuperabile pamphlet in mor te di Claudio ci rivelano come una delle sue doti peculiari, dovesse trarre esperienze umane tutt'altro che trascurabili. Ma da questo ad accusare Seneca d'ipocrisia, ci corre. Eppure è questo senso di larga umanità per cui il filosofo latino si distingue dagli stoici greci, che autorizzò nei suoi riguardi le accuse più gravi. Senecaafferma Dione, predicava in un modo e operava in un altro ; nemico della tirannide, si fece per opportunismo maestro di tiranni; vituperatore dei cortigiani, nessun luogo prediligeva più della corte; biasimava gladulatori, ma seppe lusingare Messalina e i liberti di Claudio In ogni accusa, osserva giustamente Carlcs Cardò, uno dei più recenti studiosi di Seneca, nella prefazione al De ira (P>arcelona, 1924)bisogna tener conto della dignità morale dell'accusatore, e quello dSeneca, del quale Dione non è che il portavoce, non ne ha punta. Si tratta ai un tale Suilio, di cui Tacito fa giustizia sommaria trattandolo di delatore e affermando che « coll'arrogare a sè ogni ufficio di leggi e di magistrati, fu il primo a indicare quella strada alle ladrerie ». Tuttavia, trascurando quelle delle accuse di costui che la critica ha già riconosciute false, conviene fermarsi su quelle che intaccano più direttamente il carattere di Seneca. Ed è quello che, col consueto acume, fa il Marchesi.Le accuse si possono riassumere in quella di avere inviato dalla Corsica un libretto — identificato, a quanto pare, nella Ad Polybium de consolatione — inteso a ottenere la revoca dell'esilio che tratteneva Seneca in quell'isola (il libro sarebbe stato pieno di lodi per Messalina, :ausa prima della disgrazia del filosofo, e per Claudio), e in altre più generiche, come di avere scritto le trazioni che Nerone pronunziò per la morte di Claudio e la lettera che, più tardi, inviò al Senato dopo la tragica morte di Agrippina. Nulla dimostra che queste orazioni e questa lettera fossero opera di Seneca, se non una facile e maligna presunzione che attribuiva a lui ogni manifestazione ratoria dell'imperatore. 11 Marchesi, come già il Pascal, mette in dubbio questa paternità e tutt'al più si arrischia a riconoscere la mano di Seneca nell'orazione che Nerone pronunciò dinanzi al Senato alla morte di Claudio, lasciando all'imperatore 'a responsabilità sia della laudatio fnnebris pronunciata in occasione dei funerali dello stesso Claudio, che, coi suoi elogi sfacciati del defuntosecondo narra Tacito, provocò il riso della folla, sia <'el messaggio in morte di Agrippina. Comunque, se anche si riuscisse a dimostrare che questi scritti furono redatti veramente da Seneca, a mio parere la figura del filosofo non ne sarebbe sminuita: a chi detiene delicati posti di comando, la ragion di Stato impone sovente atti che è assurdo giudicare al punto di vista del privato cittadino. Affatto diverso è il caso della Consolazione inviata a Polibio, liberto di Claudio, per la morte di un suo fratello. Dal 41 al 49 d.C, Seneca fu esiliato in Corsica sotto l'accusa di adulterio, accusa che Tacito dice non provata — incerto crimine —; la Consolazione a Polibio ha per scopo evidente di ottenere da Claudio la remissione della pena. Non vi si trovano le lodi per Messalina di cui parla Dione, le quali, però, avrebbero potuto essere contenute nella prima parte dell'opera, non giunta sino a noi ; ma l'esaltazione di Claudio fatta in queste pagine è così bassa e servile da lasciare una macchia indelebile sul carattere di Seneca. Tanto è vero che i difensori a ogni costo del filosofo — a cominciare dal Diderot — hanno voluto vedere nella Consolazione a Polibio un'opera apocrifa. Il Pascal fece invece osservare che se questo dialogo — come parrebbe da un accenno alle guerre di Britannia — fu composto nel 43, e cioè durante il terzo anno del regno di Claudio, l'elogio dell'imperatore perderebbe il suo gretto carattere di opportunismo. Infatti, da principio, Claudio fu ottimo principe, come, seppure con qualche reticenza, deve riconoscere anche Svetonio, per cui Seneca «non avrebbeadulato un delinquente, ma chiestogiustizia a un uomo i cui primi atti di governo avevano empito di soddi sfazione tutti i buoni». Si aggiunga che Seneca doveva la vita a Claudio, inquantochè questi aveva commutato la pena di morte pronunciata contro di lui, in quella dell'esilio. Ma, ad onta di queste considerazioni, il Marchesi non accetta que-sto punto di vista, e propende, molto logicamente, ad ammettere un momentaneo «deliquio morale» di Seneca. Quello che Seneca pensava diClaudio e del suo. governo appare chiaramente nel tremendo Ludits de morte Clamili, più noto col titolo di Àpocolocyntlìosis, che rimane una delle più grandi satire dell'antichità.La Consolazione a Polibio è dunque il segno d'una disfatta della filosofia morale posta a contatto con la realtà; meglio ancora, è il frutto putre d'una crisi dello spirito di Seneca. Possiamo perdonarla a un uo:,10 che Dante, nel De vulgati eloijuenlia propose a esempio dell'ottimo magistrato, a un uomo che, per sua dichiarazione, non pretendeva di essere pari ai migliori, ma soltanto, umilmente, migliore dei cattivi. CESARE GIARDINI.

Luoghi citati: Corsica, Messina, Milano, San Paolo