Le maestre di Longarone di Giorgio Lunt

Le maestre di Longarone Figure eroiche e silenziose di un mondo deamicisiana Le maestre di Longarone Incontro all'ospedale con Elisabetta Bratti - Messa in pensione il 1° settembre, era da poco ritornata al suo paese, quando avvenne la catastrofe ■ Perse la madre, un fratello, la cognata e due nipotini - Lei venne salvata con una sorella pure insegnante - Le abbiamo consegnato 500 mila lire della nostra sottoscrizione - Mezzo milione ai familiari della bidella perita nel disastro (Dal nostro inviato speciale) Longarone, 6 novembre. Agli scolari di Longarone — e a quelli degli altri paesi coinvolti nella catastrofe del Vajont — continuano a giungere attestazioni di affetto e di solidarietà, sulla scia di quanto ha. fatto < La Stampa > donando a ciascuno di essi una busta con diecimila lire e una' copia del « Cuore >. E' giusto, che il primo pensiero e le prime parole di speranza si rivolgano alle piccole innocenti vittime della sciagura. Perché i bimbi sono i più indifesi di fronte alla sventura, quelli che più hanno bisogno di calore umano per dimenticare l'atroce visione delle case distrutte, delle famiglie annientate o decimate. Ma è doveroso ricordare anche 1 lóro insegnanti, scomparsi nella tragedia o che si sono salvati in circostanze fortunose. Qualcuno dei superstiti ha già ripreso la sua missione nelle aule sconvolte o nei « centri di raccolta >, soffocando il proprio dolore per non accrescere quello degli scolari. Altri maestri e maestre attendono, negli ospedali della zona, di guarire dalle ferite per tornare al loro posto: figure eroiche e silenziose di un mondo deamiclsiano che molti hanno dimenticato, o considerano ' fuorimoda. Tra le maestre di Longarone c'erano due sorelle, Elisabetta e Antonietta Bratti, di 66 e 65 anni. La prima aveva iniziato la carriera proprio a Longarone, centinaia di morti nella sciagura erano stati suoi allievi. Poi aveva superato brillantemente il concorso per l'insegnamento nelle scuole dei «figli di italiani all'estero», era partita per la Tunisia. Una lunga permanenza in Africa, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Rimpatriata, aveva continuato ad insegnare nella sua terra, a Conegliano Veneto. Il 1° settembre, poco più di un mese prima della tragedia, era andata in pensione: non perché i 43 anni di attività le pesassero, ma per dedicarsi alla madre ottantaseienne. Il Provveditorato agli Studi di Treviso l'aveva salutata con una bella cerimonia, le spetterebbe anche la medaglia d'oro dei benemeriti della pubblica istruzione. 1 - - Elisabetta Bratti era tornata a Longarone, nella vecchia casa in salita ai Muri 18. Per restare accanto alla madre e alla sorella Antonietta, che insegnava tuttora nel paese. La sera del 9 ot&bi-e, al momento della strage, in salotto si faceva festa: dall'America erano venuti due parenti, il giorno dopo avrebbero dovuto intraprendere il viaggio di ritorno. Mentre Elisabetta sturava una bottiglia per il brindisi, i muri cominciarono a tremare. Si udì un boato lontano, mancò la luce. Poi, fu 11 caos. La madre, un fratello, la cognata e due nipotini, travolti dalle macerie, morirono. Le due maestre e i parenti americani sopravvissero. Il salvataggio di Elisabetta ha del miracoloso. Una vicina di casa — la signora Lucia Piol, di vent'anni, che è rimasta vedova con i due figlioletti — alle prime avvisaglie del disastro era còrsa in strada invocando lo sposo, uscito da pochi minuti. Sentì gridare, entrò a tentoni in quello che restava dell'abitazione della famiglia Bratti. Sugli scalini inciampò nelle gambe di Elisabetta. Un armadio era caduto addosso alla maestra, nascondendo metà del corpo. La Piol lo rimosse, al buio. Chiamò aiuto, sollevò la donna e la trascinò fuori. Anche la sorella Antonietta era ancora viva. La prima venne portata alla clinica di Pieve di Cadore, la seconda all'ospedale di Auronzo. Erano entrambe gravemente ferite, per un paio di giorni ignorarono di essere le sole superstiti della famiglia. Abbiamo sostato al capezzale di Elisabetta Bratti, ci ha raccontato l'allucinante notte. «I medici volevano trasferire Antonietta qui, vicino a me, convinti di darci sollievo — ci ha detto —. Preferiamo restare divise, almeno per qualche giorno ancora. Siamo troppo angosciate, se fossimo insieme non faremmo che piangere e rievocare la mamma e gli altri congiunti scomparai >. Ogni giorno, da Longarone salgono a Pieve di Cadore adulti e giovani, colleghi o ex-allievi della sventurata insegnante. Le recano una parola di conforto, un piccolo regalo. Anche « La Stampa » le ha portato un aiuto in denaro, perché la maestra aveva ancora la residenza a Treviso e non era stata inclusa negli elenchi dei sinistrati di Longarone. La signora Piol ha avuto da <La Stampa», attraverso il Comune, 525 mila lire. Una sola pena offusca 1 dolci occhi di Elisabetta Bratti: tutti si sono ricordati di lei, eccetto il Provveditorato da cui dipendeva fino al mese scorso Non le è nemmeno arrivate il libretto della pensione, che di solito 1 vecchi maestri ricevono al momento di lasciare la .«Minia «Forse pensano che sia morta anch'io — conclude con un sospiro —, che non abbia più bisogno di nulla. Neppure di una parola, di un pensiero » Nella stessa clinica, nella camera accanto, sono ricoverati il marito e le tre figlie della bidella di Longarone, Rosetta Capraro. II giorno della catastrofe del Vajont nella loro loro casa era entrata la felicità. A poco a poco, tra rinunce e sacrifici, la donna era riuscita ad arredare l'alloggio con mobili nuovi. Quel giorno avevano portato anche i nuovi lampadari: cose modeste, scelte dopo lunghe riflessioni, ma di cui la famigliola era orgogliosa. Abitava in uno dei primi edifici travolti dall'acqua, vicino al campo sportivo. Quella notte, alla clinica di Pieve di Cadore vennero portati un uomo di 51 anni, Bruno D'Incà, e una ragazza di cui si ignorava il nome: era una delle sue figlie, Ornella, dodicenne. Portarono anche una donna, ma vi giunse cadavere: era Rosetta Capraro, moglie del D'Incà. Il giorno dopo le crocerossine accorse a prestare la loro opera nella cllnica — un esempio di efficienza, ab-, negazione e prontezza, queste crocerossine di Pieve di Cadore — appresero che all'ospedale di Auronzo erano ricoverate la ventenne Dosolina D'Incà e la sorellina Gloria, di 3 anni: le altre due figlie della bidella. Appena le loro condizioni lo permisero, furo¬ a l a -, e a a, e o ¬ no trasferite a Pieve. Ora le tre ragazze • il padre attendono la guarigione in quattro lettini attigui. Piangono l'exbidella che è morta nel giorno lieto, quando aveva potuto rendere più ridente la casa. Con i mobili odorosi di vernice e i lampadari che ebbero un fremito, prima di abbattersi sulle rovine. La famiglia della povera bidella ha già ricevuto da «La Stampa » un primo aiuto di 450 mila lire. Giorgio Lunt L'insegnante Elisabetta Bratti, ferita duratila la terribile notte del disastro del Vajont, è ancora in ospedale. Con lei è la donna che l'ha salvata, Lucia Piol, la quale nella sciagura ha perso il marito e due figli