Appuntamento in Carnia alla pieve di San Pietro di IppolitoPaolo Monelli

Appuntamento in Carnia alla pieve di San Pietro Una festa popolare antica di 13 secoli Appuntamento in Carnia alla pieve di San Pietro Quando partii dalla Carnia, cinque sei settimane fa, gli amici che mi avevano portato in giro per quelle valli che, per dirla con Ippolito Nicvo, fra le loro creste di granito serbano ancora l'impronta degli antichi tempi, mi raccomandarono di tornare fra loro per l'Ascensione, per assistere alla cerimonia del bacio delle croci alla Pieve di San Pietro. « Vedrai — mi dissero — una jesta popolare che da epoche remote, forse da prima dell'ottavo secolo, esprime con istintivo atavismo l'attaccamento alla terra natale, alle tradizioni, alle memorie patrie e familiari ». Il comune di Zuglio nella valle della But, ai piedi dell'erta guglia boscosa su cui sorge la pieve di San Pietro, è forse il luogo della Carnia più gremito di cimeli e di memorie storiche. La gentile borgata di Zuglio sulla destra del torrente si annuncia di lontano, fino dall'inizio del ponte, con la facciata smeraldina di una casa, un verde così abbagliante che appaiono scoloriti al confronto i prati del monte e le corone degli alberi (i carnieli amano pitturare di vivacissimi colori le loro case, forse per rifarsi dei tanti secoli di pietra grigia o di legno annerito dagli anni). Occupa il luogo dell'antica capitale dei carni che già abitavano queste valli il V o VI secolo avanti Cristo; e fu dopo la conquista romana Forum Julium Carnicum, fiorente città sulla strada che per il passo di Monte Croce scendeva fra i bellicosi e aggressivi nòrici. Ne sono stati messi in luce interessanti avanzi, la platea del fòro con qualche colonna mozza resti di una basilica, il basamento di un tempio. La pieve che domina la valle da settecentocinquanta metri di altezza è del secolo XIV, ma conserva elementi di una chiesa molto più antica, dell'ottavo secolo, eretta a sua volta sulle rovine di un for tilizio romano, di difesa e in collegamento con altri luoghi eminenti più a nord. Per secoli la pieve, dopo che il vescovo di Zuglio per invito dei duchi longobardi si trasferì a Cividale, fu l'unica chiesa della valle, con un solo cimitero e un solo fonte battesimale; poi divenne chiesa matrice, cioè con autorità sulle altre che sorsero in seguito - Da- quattordici secoli ogni anno il giorno dell'Ascensione salgono ad essa in processione, dietro la croce astile della loro chiesa, fedeli delle ventisette parrocchie che ne dipendono, da quelle vicine da cui si arriva in poco più di un'ora alle più remote e. più in alto, Santa Gjertrude di Timau, San Martino di Valle e Rivalpo, Santo Osvaldo d Cleulis; di qui le piccole processioni sono partite all'alba per arrivare in tempo, calpestando per i primi chilometri la neve fresca caduta il giorno innanzi. Dice l'antico documento in friulano arcaico conservato nella pieve, < " Cult d'intór da gnoste antighe pleif di San Pieri", qui intorno alla no stra antica pieve di San Pie tro veniamo ogni anno pregando dietro le nostre croci per tener viva la memoria dei molti secoli passati, quando i nostri avi qui erano battezzati e qui tornavano tutti riposare per sempre dopo la morte ». La cerimonia avviene in uno scampolo di prato trenta metri più sotto della chiesa, detto « prato del vincolo » perché da secoli non può essere destinato ad alcun altro uso, in forte pen dio, nero di folla; molti per veder meglio si sono inerpicati sul costone erto che lo domina, denso di faggi di abeti e di larici. Le ventisette croci, ciascu na con il suo crocifero, sono raggruppate nel punto più basso del prato; agghindate tutte come giovani spose con lunghi nastri di seta, con preziosi zen dadi, con roselline, con nappe Una trentina di metri più monte stanno il parroco di Zuglio, il prevosto ed un omonc altissimo, solido, barbuto, vestito di una tonaca rossa serrata da un cordiglio alla vita, che ha più l'aspetto di un carnefice dell'Inquisizione che di un timorato abitante di Zuglio qual èntsecPd è; e regge la croce astile nuda questa, senza alcun ornamento, — della pieve madre. 11 prevosto spiega prima di tutto come si svolge il rito. « La cròus da mode, sa è pieslnt, ca rispuindi: " A è chi! "», e continua a dire, sempre in friulano, « e si avvicini alla croce madre della pieve di San Pietro per scambiare la "bussade di afVet ", il bacio d'affetto ». Fa la chiama delle croci un sacerdote della valle che forse viene di fuori perché ogni tanto si impappina leggendo l'elenco delle chiese e la gente intorno ride e ne corregge la pronuncia: « Cròus di Sante Gjertrude di Timau.... Cròus da Madone di Gràcie di Taussie.... Cròus di San fàcttm di Palùce.... », e via via, secondo un ordine immutabile, dalle chiese più antiche alle più re centi. I crociferi, a mano a mano he sono chiamati arrancano per l'erta con la grave croce, gente di ogni età e condizione: un ragazzotto che va su quasi correndo; una ragazza con la gonna lunga e il fazzoletto di lana nera annodato dietro la nuca, un vecchio canuto e tra- ballante. Ognuno si arresta da vanti all'omone dalla tonaca d: sangue, questi inclina un poco la croce della pieve, l'altro alza un poco la sua, finché i bracci dell'una e dell'altra combacia no. Questa è appunto la « bus sade », il bacio della croce figlia alla croce madre, è il simbolo del ritrovarsi insieme dei figli della valle, legati da una origine comune — i carni romanizzati fusi con i pochi longobardi sopraggiunti nel sesto secolo in un popolo industre, tenace, avventuroso, — condan nati per quasi duemila anni ad una rosane di sacrifici di pene di guai, ma consolati anche da lunghi periodi di pace che permettevano accanto alla fatica quotidiana una attività arti giana ed artistica, nel sollievo dell'allontanarsi di un rischio, della fuga di un invasore, della fondata speranza di anni migliori. Anche il rito in chiesa ebbe per me l'impronta degli antichi tempi. Una Messa solenne un dialogo continuo fra i cele¬ branti all'altare ed il popolo stretto sotto le volte gotiche, un canto quasi continuo, pieno, appassionato, che sembrava obbedisse ai cenni di un invisibile direttore, un alternarsi di limpide voci femminili e delle voci gravi degli uomini, con un accordo spontaneo come quello dei cori paesani che intonano le malinconiche villotte. A memoria cantavano, nessuno leggeva da un libro da Messa; e i vocaboli latini sonavano chiari, scanditi, senza deformazioni, segno che tutti ne conoscono il significato: non solo i cittadini, i maestri, i sindaci, le autorità regionali, venuti con le automobili, ma tutto il popolo, vecchie con le vesti nere e il fazzoletto nero fino a metà fronte, giovani donne ben pettinate, vecchi giovani e ragazzi. Non avrebbe senso imporre a questi valligiani una traduzione in volgare delle preghiere e delle invocazioni; sarebbe anzi sgradita fatica per essi sforzare la memoria per imparare un nuovo testo. Me lo disse il sindaco di Zuglio che mi stava accanto altissimo e vasto con una gran chioma bianca, quasi uno di questi monti nevosi che avesse assunto sembianze umane, al quale avevo chiesto appena si levò il canto « ma cantano in latino? ». « Certo, rispose, qui non è recepita la modernità ». Uscii di chiesa per Un ambulacro che deve essere un pezzo del tempio arcaico, con una rozza bifora romanica. Fuori sul breve sagrato i crocchi era no cordiali e vivaci, ma con una esemplare ritenutezza di toni e di gesti. Qualche funzionario della regione teneva circolo, ma senza sussiego, la gente gli parlava senza ombra di timidezza, ma con gen tile deferenza. Gruppi di ra gazze . e di giovani, famigliole, si incontravano con altri gruppi, con altre famiglie, si scambiavano saluti e notizie, si capiva che non si erano più veduti dall'Ascensione dello scorso anno; i montanari, quando non vanno per le vie del mondo, non si muovono mai dal loro villaggio. Molte più donne e vecchi che uomini giovani e maturi, naturai mente; già è cominciato leso do stagionale, oggi i paesi da cui questi fedeli sono partiti saranno ancor più silenziosi deserti del solito. Viene il monsignore abate di Zuglio che ha spiegato in chiesa con parole semplici ed efficaci il significato della cerimonia, « espressione genuina del passato che non è bello che muoia »; e mi invita a bere con lui un tajùt, cioè un bicchiere di vino, o un bicchierino d aquavite di prugna o di pera (si fa una gustosa aquavite di pe ra a Treppo, forse il più grazioso paese della Carnia, lindissime case con balconcini di ferro battuto, in questa stagione sommerso da una fioritura di gerani); e immaginando che intendesse portarmi in canonica o in sagrestia, insomma al chiuso, ebbi per un attimo il rammarico di dover lasciare la veduta vastissima, le grandi piramidi ancora colme di neve dell'Amariana e del Tersadio, i colli con il chiaroscuro dei pascoli e delle foreste lucidate con impegno dal temporale della vigilia, le sparse macchie chiare compatte dei villaggi, e poco sotto l'orlo del bosco gli stàvoli solitari (abitazione, stalla e fienile); e sotto quasi a perpendicolo la valle occupata tutta dai meandri del torrente tornati pacifici fra ghiaie scintillanti: peccato dover rinun ciare a una bellezza così intat ta ed esaltante. Ma il monsi gnore abate si diresse ad uno spaccio improvvisato all'aria aperta, chiese a ciascuno, « Tocai? Verduzzo? Slivoviz? », e servì ad ognuno di noi il bic hiere che aveva ordinato al banco, con episcopale umiltà. Paolo Monelli

Persone citate: Cividale, Pieri, Treppo