Gli scampati alla strage di Marzabotto ricordano con orrore il nome di Reder

Gli scampati alla strage di Marzabotto ricordano con orrore il nome di Reder Dopo la richiesta di perdono dell'ex maggiore delle SS Gli scampati alla strage di Marzabotto ricordano con orrore il nome di Reder Attualmente l'ex ufficiale nazista sconta l'ergastolo al carcere militare di Gaeta - I massacri nell'autunno del 1944 provocarono quasi duemila vittime - Donne, vecchi e bimbi furono sterminati «Sarebbe bello il perdono — dice un mutilato — ma quello potrà perdonarlo soltanto Gesù» (Dal nostro inviato speciale) Marzabotto, 27 giugno. « Sarebbe molto bello il perdono. Ma quello potrà perdonarlo soltanto Gesù »: quello è il maggiore delle SS Walter Reder, massimo responsabile della strage di Marzabotto. Chi parla è uno dei superstiti, Mario Carboni: dalla sua carrozzina di mutilato mi guarda con gli occhi chiari umidi di lacrime, ripete « sarebbe bello il perdono » e aggiunge « ma al solo parlarne mi vedo tutto davanti agli occhi». Milleottocentotrenta assassinati sulle colline che chiudono il Reno a levante della Porrettana, fra le macchie povere di grano, i vigneti, i boschi che si allargano verso la Toscana. Fu alla fine del settembre 1944. Ed oggi il maggiore Walter Reder, 52 anni, in buona salute, si rivolge agli abitanti di Marzabotto per chiedere il loro perdono, ottenere la grazia e lasciare cosi l'ergastolo di Gaeta. Vuole raggiungere la vecchia mamma in Germania. La lettera di Reder, scritta a macchina e firmata con mano sicura, è arrivata al sindaco di Marzabotto, Bottonelli, la settimana scorsa. Nella popolazione ha avuto un effetto traumatizzante, risvegliando incubi che il tempo aveva sopito. Ha anche scatenato un conflitto di coscienze. C'è chi dice: « Lo vorrei qui, per farlo a pezzi ». Ma molti devono soffocare con l'esigenza di giustizia la tentazione del perdono, come tentazione di un gesto sublime di amore, tale da dire la infinita distanza fra chi uccise e violentò e chi fu vittima. Direi che è altissima, in tutti, la coscienza della necessità di giustizia. « Se perdoniamo a Reder dovremmo aprire le porte di tutte le prigioni italiane. Non c'è nessun delinquente che abbia colpe più pesanti di lui », dice Berto Canotti, uno dei superstiti e testimoni. Incontro una testimone che dà alla semplicità del suo racconto una potenza tragica, allucinante. E' Anna Sammartino. Nel settembre 1944 aveva 9 anni: « Ero una bambina ma ricordo benissimo i tre giorni di terrore. Mi trovavo con un gruppo di donne chiuse nella cantina della casa che Reder aveva scelto come sede del comando. Veniva a prendere le donne e ordinava di seguirlo nel bosco. Ritornavano completamente nude. Una era incìnta: le aprirono il ventre e tirarono al bersaglio contro il bambino, che era già ben formato. Mio fratello, aveva allora 8 anni, fu mitragliato nel cimitero. Finì sotto il mucchio dei cadaveri e un contadino lo trovò ancora in vita dopo tre giorni. Morì a casa ». Altri sei della famiglia furono trucidati: « Reder doveva compiere la strage in tre giorni. Dopo si comportò come se avesse fatto il suo do vere », dice Anna Sammartino. Si prova un senso di pietà impotente, quasi di rimorso nel provocare la ripetizione di questi racconti. Esplodono come torrenti, e i dettagli atroci danno alle parole un distacco gelido, da incubo. Sulla piazza di Marzabotto di fronte alla lapide che ricorda tanto dolore e la medaglia d'oro che decora la città, ci sono alcuni alberelli di piop po e due panche, punto di incontro di uomini, donne, ra gazzi, che commentano la richiesta di perdono arrivata dal penitenziario di Gaeta Una donna: « Ora parla di sua madre, vuol vederla prima jhe muoia. Non era una madre Quella di ottant'anni che Reder bruciò nel suo letto, col lanciafiamme? ». Il coro tragico delle testimonianze riprende: la chiesa di Casaglia, col prete bruciato sull'altare, una paralitica bruciata nella sua panca. Donne e bambini che avevano seguito il parroco furono mitragliati in massa nel cimitero. E i tre parroci uccisi sulle colline, gli infermi e i vecchi trucidati alla « canapiera» di Pioppe: li getta rono nella turbina a acqua della piccola fabbrica, li finirono con le bombe a mano « Mio padre era con quelli, lo uccisero così, il corpo lo fecero correre giù per il fiume » dice Luciano Felci, che allora aveva 17 anni. Interviene Alberto Angiolini: gli uccisero moglie e figli e lo costrinsero ignaro, a fare il cuoco di Re der per due mesi. I ricordi salgono come una marea, diventano un'esigenza di giustizia di questa gente che sembra sbigottita: « Reder aveva 29 anni soltanto, al tempo della strage » commentano alcuni, stupiti. «Se liberiamo lui perché tanti altri dovreb bero restare in carcere? », si ripetono l'un l'altro. Il parroco, don Angelo Serra, non vuol parlare: « Non dico nien te, non una parola» e se nei va in fretta. Gli amministratori comunali, riuniti ieri sera, hanno deciso di sentire il parere degli uomini della Resistenza e dei parenti delle vittime, prima di dare una risposta ufficiale. Il sindaco, Bottonelli, ha scnntp«UsmsdsaIdMrnrdslcmnsicprdsnpttlcisctsagucnmvtnbtdrdscamadd spiegato tutto questo con una conferenza-stampa a Bologna, nella « sala rossa » del Comune. Ma non c'è dubbio: il sentimento di Marzabotto è nelle parole del superstite mutilato: « Sarebbe bello il perdono ». Un'ipotesi generosa, ma ingiusta: questo è il pensiero dominante. Perché perdonare soltanto Reder, e proprio Reder? E' la domanda che forse tormenta più dei ricordi atroci. Mario Fazio

Luoghi citati: Bologna, Germania, Marzabotto, Toscana