la «Passione secondo Luca» di Penderecki ha aperto ia rassegna musicate detta Rai di Massimo Mila

la «Passione secondo Luca» di Penderecki ha aperto ia rassegna musicate detta Rai la «Passione secondo Luca» di Penderecki ha aperto ia rassegna musicate detta Rai L'opera del giovane compositore polacco in «prima» torinese all'Auditorium - L'esecuzione diretta dal maestro Jerzy Semkow, con l'orchestra sinfonica di Radio Torino e il coro istruito da Ruggero Maghini Molto opportunamente l'annuale rassegna delle orchestre sinfoniche e dei cori della Rai, che 3i svolge quest'anno a Torino, si è aperta con la presentazione di un'importante opera moderna. Passio et Mors Domini nostri Jesu Christi secundum Lucam, di Krzystof Penderecki. Nato nel 1933, Penderecki è il prodotto più significativo di quella sorprendente fioritura che la musica contemporanea conosce oggi in Polonia, al seguito dell'apertura che Szymanowski aveva effettuato verso gli orizzonti della musica moderna, e che fu poi ulteriormente ampliata dalla mediazione di Lutoslawski, eccellen¬ te compositore dell'età di mezzo. Nel panorama delle avanguardie musicali quella polacca ha una fisionomia originale: è anche lei post weberniana, aleatoria, gestuale, come tutte le avanguardie che si rispettino, ma pur tenendo nel debito conto l'esperienza, ormai assimilata e superata, della dodecafonia, tiene gli occhi puntati, più che sull'espressionismo viennese, sopra un altro grande degli anni ottanta, che affinità di costume, di luogo, e anche di schieramento ideologico, le rendono più vicino: Bartók. L'avanguardia polacca ha fatto anche lei tutte le sue prove con le serie avanti e indietro, con le permutazioni' e con l'estensione del principio seriale dalle frequenze agli altri parametri della composizione, ma in realtà quello che soprattutto le importa, ciò che l'appassiona e la affascina, è il timbro, la materia del suono in se stessa, e in modo particolare quella avventurosa esplorazione che Bartók aveva condotto sulla malcerta frontiera che divide il suono dal rumore (o li congiunge). La nuova musica polacca parte là dove Bartók era arrivato, e procede verso effetti incredibili d'illusioni auricolari, riuscendo a produrre coi più normali strumenti dell'orchestra, e specialmente con gli archi, nonché naturalmente con l'ausilio della percussione, suoni che ci si domanda cosa diavolo possano essere, e In confronto al quali il vocabolario dell'elettronica impallidisce nella sua incorporea astrattezza. Penderecki, tenendo d'occhio anche Varese, ha ottanuto in questo senso effetti straordinari, e ha fatto delirare i patiti dell'avanguardia con le stupefacenti sonorità di composizioni come Anaklasis, Fluorescences, la Sonata per violoncello e orchestra. Nel Trenos per i morti di Hiroshima è riuscito a trarre da 52 strumenti ad arco i suoni catastrofici d'un bombardamento a tappeto, ma, quel che più conta, sembra che in quel caleidoscopio di rumori atroci si sia in qualche modo infilata anche la indignazione della coscienza umana per gli scempi della guerra. Poi un bel giorno Penderecki ha stupito tutti scrivendo uno Stabat Mater per coro a cappella, che ora è andato a finire dentro questa grossa Passione secondo San Luca, ulteriore motivo di sorpresa per i tifosi dell'avanguardia, che ormai cominciano a snobbare Penderecki, come un transfuga, alla maniera di Henze. verso i redditizi compromessi d'una musica più commerciale. Le dichiarazioni rilasciate ieri dal compositore a «La Stampa» puntualizzano molto bene ta sua situazione attuale: hanno quasi l'aria di sconfessare le punte avanzate della sua produzione d'avanguardia come stravaganze giovanili, ma d'altra parte stabiliscono un certo punto di partenza dei linguaggio musicale moderno, dal quale non si torna Indietro Schònberg, Webern e Bartók. Ce n'è abbastanza per il gusto del pubblico torinese, poco avvezzo alle esperienze contemporanee, e perciò è stata davvero un'ottima iniziativa di porlo in contatto con quest'opera d'una avanguardia temperata, molto temperata, e sorretta da un'imponenza di concezione, da una concreta musicalità, da un senso infallibile degli effetti strumentali e corali, tali da imporre rispetto anche al più diffidente conservatore. Coi suoi brusii di folle in preghiera, con le sue giaculatorie, con gli effetti di coro parlato, con le vociferazioni furiose della folla, i gridi, i fischi, coi suoni a succhiello degli archi, coi «clusters», o grappoli dì note contigue prolungate, che generano tutto un tremito di battimenti e vi scendono addosso come il si¬ bilo d'una bomba, col lento serpeggiare di tortuosi bassi polifonici alla Bartók, con le esplosioni colossali della grande orchestra e dei quattro cori scatenati in un « plenum » di sonorità schiacciante, la Passione secondo San Luca ambisce a presentarsi come una Passione di Bach riscritta coi mezzi moderni, e con un senso spettacolare della religione alla maniera di Berlin/, e di Liszt. Ne esce un oratorio abbastanza tradizionale, per il quale si ha l'impressione che il compositore abbia dovuto versare non poca acqua nel vino dell' avanguardia. Il Penderecki d'una volta mette fuori la testa ogni tanto, nelle occasioni di tumulto, nei putiferi! della folla inferocita che chiede la crocifissione di Cristo: ce n'è ancora abbastanza per sbigottire e far restare di stucco un pubblico non smaliziato. E bisogna dire che in questi effetti di drammaticità esteriore e di naturalistica vivezza descrittiva, il musicista d'oggi, con tutte le risorse d'una progredita tecnica strumentale, regge benissimo il confronto col suo grande modello settecentesco. (D'accordo che non è poi gran cosa: sarebbe come riconoscere che le truppe del generale Westmoreland riuscirebbero giusto giusto a farcela con l'esercito di Federico il Grande). Ma quando è in gioco il senso ultimo della cosa, il sacrifìcio dell'uomo-Dio, con tutto il corteo di meditazioni ch'esso può destare, allora bisogna riconoscere senz'altro che il vecchio Giovanni Sebastiano spicca uno sprint prodigioso e si prende la più strepitosa delle rivincite. La musica moderna sembra sentirsi a disagio nell'ampiezza della costruzione narrativa, com'è dimostrato dal ricorso, non molto peregrino, a una voce recitante (il dicitore Rolf Tasna). Si passa da un momento felice ad un altro attraverso zone morte, lunghi pedali senza pretese. Manca quel mezzo di collegamento narrativo ch'era il declamato drammatico di Bach, così come mancano le strutture portanti, prefabbricate, dei corali, dell'aria, delle forme tradizionali: questi poveri moderni devono sempre costruirsi tutto ex novo, come se ognuno fosse la prima persona del mondo a far musica. Qualche perplessità desta talvolta il canto solistico (gli ottimi Dorothy Dorow, soprano; Andrzej Hiolski, baritono; Boris Carmeli, basso), talvolta gregorianeggiante, talvolta cromatico come nel dallapiccoliano «Deus meus», che assume quasi una funzione tematica di « motto », talvolta infine apertamente do decafonico, mentre il resto della partitura non lo è. Con tutto questo, anche con qualche lungaggine e smagliatura, resta l'impressione di un'opera imponente, come non ne nascono tutti i giorni, sorretta da un temperamento musicale di favolosa concretezza e autenticità: un tipo che non lavora sulle note, ma direttamente sul suono, passando attraverso le note. E quanto all'impressione non ingiustificata che in questo grande macchi none Penderecki abbia fatto un poco marcia indietro, si tenga presente che in ogni caso non ha fatto che riaccostarsi ai propri inizi: la sua prima composizione importante, Dai Salmi di Davide, del 1958, somiglia maledettamente a questa Passione. L'avvenire dirà se si tratta davvero d'una marcia indietro, o se per combinazione non sia Penderecki il tipo chiamato a trattare il linguaggio musicale moderno non già come un' invenzione scopo a se stessa, bensì come strumento per gli eterni fini dell'arte, e a riconquistare in saio, come fece Monteverdi nei riguardi della vecchia polifonia, i valori indistruttibili dei linguaggi passati. La grossa e difficile composizione ha avuto una splendida esecuzione, di cui vanno felicitati senza riserve il direttore polacco Jerzy Semkow e il maestro Ruggero Maghini, che ha istruito il coro, opportunamente rinforzato. Unico neo la mancata distribuzione dei tre cori in aree nettamente distinte, che non è un .'utile capriccio del compositore, ma un mezzo espressivo di comprovata efficacia, soprattutto in quei passi non polifonici dove i cori si echeggiano da diversi punti cardinali (per esempio, fin dalla seconda pagina, la seconda invocazione « O crux »,, la cui triplice ripetizione non ha senso se non è stereofonicamente distribuita). Ammirevole il coro di fanciulli di Bad Toelz, diretto da Gerhard Schmidt. Un pubblico un po' scarso e prudente ha decretato all'opera, all'autore e ai bravi interpreti un successo senza contrasti e senza entusiasmo. Massimo Mila

Luoghi citati: Bad Toelz, Hiroshima, Polonia, Torino, Varese