Non pare senza speranza la lotta contro il banditismo in Sardegna di A. Galante Garrone

Non pare senza speranza la lotta contro il banditismo in Sardegna La testimonianza di un «continentaie Non pare senza speranza la lotta contro il banditismo in Sardegna Ristretto a una zona precisa, di prevalente economia agro-pastorale, ha profonde radici nel passato - Le trasformazioni economiche degli ultimi anni non hanno inciso nel profondo, ma piuttosto favorito nuove forme di criminalità - Tuttavia s'avverte, soprattutto nei giovani, un'incoraggiante presa di coscienza, con il coraggio della denuncia e il rifiuto del vecchio "clientelismo" (Nostro servizio particolare) Cagliari, maggio. Ragioni di lavoro mi hanno condotto, dal principio di quest'anno, in Sardegna, mi hanno messo a contatto con persone di diversa condizione, e anche con molti giovani. E di fronte a questa realtà, oggi dominata e offuscata dall'infuriare del banditismo — un fenomeno che, circoscritto in alcune ristrettissime plaghe dell'isola, allunga ormai la sua ombra angosciosa su tutto il paese —, mi sono accorto di quanto sia facile, ma in fondo piuttosto vacuo, spacciare giudizi sbrigativi, sentenze oracoleggianti. Come ha detto Saragat a Nuoro, non dobbiamo collocarci nella «posizione distaccata del giudice », bensì sentire la «corresponsabilità che ci investe tutti », e in primo luogo ascoltare le voci dei sardi, e sforzarci di capire quello che avviene, e perché avviene. Questa mia non è dunque che la semplice testimonianza di un « continentale ». Qui si avverte da molte parti, nelle conversazioni come sulla stampa locale, un certo fastidio per le proposte di soluzioni spicce o le interpretazioni troppo sapute. Appare sommamente ingenuo, oltre che offensivo, ridurre tutto a un problema di polizia e di ordine pubblico; anche se, ovviamente, questo problema esiste in tutta la sua gravità, e ne parleremo in un'altra occasione. Il fenomeno ha dimensioni sociali di preoccupante vastità, e cause ben precise che, per rifarci ancora alle parole di Saragat, « affondano le loro radici nel passato». Sarebbe d'altra parte troppo comodo accontentarsi di vaghe spiegazioni socio-economiche, sboccanti in un fatalismo deterministico, o in denunce astratte che non servono a nulla, o tutt'al più a meri fini di propaganda politica. C'è piuttosto in molti la volontà di aggredire finalmente, con ogni mezzo, questa dura realtà di fatto, e, insieme, d'intenderne le profonde ragioni storiche. Mi pare, ad esempio, estremamente significativo che diversi giovani univer sitari oggi si volgano a tesi di laurea sulla storia poli tica, economica, sociale del la Sardegna dall'Unità alla seconda guerra mondiale. Ed esemplare, in questo campo, ci è parsa la rela zione sul mondo sardo tra la fine dell'Ottocento e il principio del nostro secolo, presentata da Giuseppe Fiori al recente convegno di studi gramsciani a Cagliari Si giunge così, per molte vie, a uno spregiudicato raffronto tra la Sardegna di ieri e quella di oggi. E si riconosce che molte cose so no certamente mutate da allora. Non c'è più il tragi co squallore di un tempo, la disperata immobilità di un mondo arcaico, sequestrato dalla civiltà moder na, la spaventosa pressione fiscale, l'usura implacabile, interi paesi messi all'asta, e il congiunto spirito di protesta e di rivolta che si esprimeva nel grido: «.Al mare i continentali ». Strade, scuole, industrie, correnti migratorie hanno dato una nuova fisionomia al l'isola. Ma — mi si fa notare — la miseria incide ancora, e brutalmente, in alcune zone arretrate, specialmente là dove il banditismo alligna e trova protezione nella natura, negli uomini, nella paura. E' vero, si aggiunge, che la miseria non può da sola spiegarci fenomeni di delinquenza come quelli ai quali oggi si assiste sbigottiti; e se ne ha una riprova nel fatto che in alcune Provincie dell'Italia meridionale, dove gli indici di povertà sono ancora più bassi, non accade nulla di simile. E tuttavia (come alcuni amici sardi mi ricordano) questa miseria del Nuorese ha in sé qualcosa di tipico, di collegato alla vecchia comunità agro-pastorale, che ci deve far meditare. Si pen si, soprattutto, alla precarietà di questa economia, alla sorte dei pastori padro ni delle greggi ma non della terra, o a quella ancora peggiore dei servi pastori, all'assenteismo o alla rapace avidità di molti proprietari terrieri, alla vita necessariamente errabonda e alla mancanza di case. Certamente, la recrudescenza del banditismo ha assunto nuove forme, si avvale di nuovi metodi, che ci ricordano quelli insieme barbari e tecnicamente evoluti delle società più industrializzate; ma i vincoli di questa nuova delinquenza con la vecchia società pastorale, o piuttosto con alcuni suoi aspetti degenerativi, con qualche sua torbida frangia che dalle solitudini della campagna si estende alla città (come Fiori ha ben dimostrato su queste colonne), appaiono, agli occhi di non pochi osservatori sardi, indubbi e gravi. Sicché non bastano le deplorazioni morali o le constatazioni sociologiche. Occorre invece trarre, da questa complessa visione della realtà, alcune coraggiose indicazioni operative, impegnarsi in un programma che non può essere solo repressivo, ma anche coraggiosamente innovativo. Ecco perché, mi si dice da più parti, bisogna adoprarsi per dare un senso concreto a quella «corresponsabilità che investe tutti», di cui parlava il Capo dello Stato. Un lavoro immenso resta da fare. Come dice un quindicinale di Cagliari, « non bisogna fidarsi troppo delle apparenze, non diamo troppa importanza a certi indici dei consumi, alla presenza dei televisori e dei frigo. Può darsi che queste "modificazioni" così vistose siano rimaste in superficie, senza troppo mutare la sostanza delle cose ». E' un fatto che l'avviata industrializzazione dell'isola non ha inciso nel profondo, e ha lasciato ancora quasi intatte varie zone. E quando si dice che le responsabilità sono di tutti, qui si pensa, da un lato, allo Stato, che se non è più quell'« entità ostile » di cui parlava a Cagliari, nel 1891, Felice Cavallotti, è ancora sentito come qualcosa di lontano, che passa sopra le teste degli isolani, e non ha fatto e non fa tutto quel che poteva e doveva per sottrarre la Sardegna alla sua secolare depressione e al suo isolamento. Ma dall'altro lato si pensa (e lo si dice apertamente) alle responsabilità delle classi dirigenti locali. E' anche questo un male inveterato, un fatto di costume. Ancora sopravvive il ricordo delle vecchie consorterie, avvilite da un meschino clientelismo, che appoggiavano o combattevano i governi secondo che, standosene dentro o fuori, potessero o non potessero brigarne i favorì. E il fascismo non distrusse affatto le cricche locali, ma si limitò a sovrapporvi un manto autoritario e corruttore. I frutti nefasti di questa poco encomiabile tradizione si scorgono anche oggi. Proprio in questi giorni ho Ietto, su un quotidiano di Sassari, l'accorata protesta di un giovane : « Le clientele sono vive, prosperano all'ombra della politica, condizionano gli uomini di partito e di governo e ne sono indirettamente spinte a rinforzarsi e ad evolversi piuttosto che a scomparire. E un po' dovunque, ma soprattutto in certe zone del Nuorese, la clientela è tutto, è il vero centro della vita collettiva, economica, politica ». Da questa consapevolezza dei mali antichi e attuali dell'isola nasce, nei migliori, una risoluta vo lontà di fare. Apertamente si riconosce che, per colpa della classe politica locale, l'autonomia regionale non ha dato se non risultati sporadici e superficiali. E soprattutto, da tanti segni appare che molti giovani hanno finalmente scoperto il gusto delle idee, della politica, e vogliono farla finita col vecchio clientelismo. Ecco perché, nonostante l'addensarsi di tanti episodi sconcertanti, è lecito a un osservatore « continentale » guardare all'avvenire della Sardegna con qualche fondata speranza. A. Galante Garrone

Persone citate: Felice Cavallotti, Fiori, Giuseppe Fiori, Ietto, Saragat