IL CROLLO nn è la fine

IL CROLLO nn è la fine DALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO ALL'ATTENTATO DEblE.TORRI GEMELLE: DUE ROVINE OPPOSTE ESIMMETRICHE. METAFORE DELLA NOSTRA STORIA IL CROLLO nn è la fine Marco Belpolit: DUE avvenimenti segnano il decennio che abbiamo ahe spalle: la caduta del Muro di Berlino e la distruzione delle Torri gemelle del World Trade Center di New York. Sono due crolli opposti e simmetrici. Il primo, l'abbattimento deha barriera di cemento che separava le due parti deh'ex capitale tedesca, è stato un evento gioioso e coUettivo, una grande festa, un happening durato parecchi giorni, che si è concluso con la caduta del regime pohtico della Ddr e di una divisione che l'Europa, l'intero mondo, hanno salutato come l'inizio di una nuova epoca. L'altro, effetto dell'attacco suicida di una cellula terrorista di matrice fondamentalista islamica, diretto contro il simbolo stesso deha città americana, delia sua ricchezza, solidità e potenza, è invece un evento angoscioso, tragico, carico di valenze simboliche. Mentre l'azione di Berlino indica l'apertura di uno spazio, un cambiamento geopohtico - dallo «spazio chiuso» della Guerra fredda allo «spazio aperto» deha globalizzazione - mediante un atto distruttivo, il gesto devastatore di New /ork mostra invece il contrario: la chiusura di uno spazio - forse il medesimo spazio - che produce una reazione claustrofobica, almeno in Occidente. C'è anche un'altra simmetria che riguarda l'utilizzo stesso dehe macerie prodotte dai due eventi: mentre i frammenti del Muro vengono raccolti e venduti come souvenir ai tedeschi e ai turisti stranieri in visita alla nuova Berlino dell'unificazione, alimentando una piccola industria deha demolizione e del riuso, le rovine del Wtc vengono faticosamente dissepolte e occultate come se si trattasse di materiale osceno, ingombrante, scandaloso. E in una certa misura lo sono, vista la presenza dentro di esse di 3000 corpi umani mescolati ahe macerie, polverizzati dal crollo e in gran parte inecuperabih. Caricate e trasportate su camion e articolati verso le chiatte a un deposito situato a debita distanza dal luogo del crollo, le macerie di New York sono la ((parte maledetta)) di un evento traumatico di grande rilevanza. Coghere il senso di im'epoca, ò in modo più limitato, di un decennio - lasso di tempo con cui noi oggi descriviamo il succedersi impetuoso degh eventi - non è semphce. Per farlo bisogna necessariamente procedere per dettagh, particolari, frammenti, cercando di illuminare avvenimenti, ma anche opere, libri, scritti e idee che ci aiutano a restituire un significato, almeno plausibile, al nostro passato prossimo. Quello che mi sono proposto di fare è questo: raccontare l'epoca dell'estremismo in cui viviamo. [...] L'ETÀ DELL'ESTREMISMO «La nostra è effettivamente un'epoca di estremismi. Viviamo infatti sotto la minaccia continua di due prospettive egualmente spaventose, anche se apparentemente opposte: la banalità inintenbtta e un terrore inconcepibile». Così affermava icasticamente nel 1965 Susan Sontag al termine di un ampio saggio dedicato all'Immagine del disastro. E' una frase che sembra scritta qualche ora fa, come se i quarant'anni trascorsi fossero un tempo irrisprio, del tutto inconsistente, neh'arco deha storia deha civiltà occidentale o, si dovrebbe dire, deha civiltà umana in generale, dal momento che oggi il mondo sembra unificato anche grazie a queh'estremismo e ahe sue due prospettive: banahtà e terrore. Non è un caso che la saggista americana abbia scelto due aggettivi - ininterrotta e inconcepwile per definire le due facce di questa medagha. La banahtà appare infatti attualmente senza fine, o megho: senza interruzioni di sorta, come se «Lullaby» di M non esistessero luoghi o spazi sottratti a essa; mentre il terrore è davvero inconcepibile: non può essere pensato, arriva imprevisto, come onnai ben sappiamo. La frase, quasi un aforisma, segue un periodo altrettanto secco e tranciante: «E' la fantasia, servita in razioni abbondanti dalle arti popolari, che permette ai più di tenere testa a questi due spettri. Infatti una dehe cose che la fantasia può fare è di sollevarci dall'insopportabile monotonia e di distrarci dahe paure - attuah o future - con una fuga nell'esotismo di situazioni pericolose risolte lietamente all'ultimo minuto. Un'altra cosa che può fare è normalizzare ciò che è psicologicamente insopportabile, assuefacendoci così ad esso. Nel primo caso la fantasia abbellisce il mondo, nel secondo lo neutralizza». Questa presa di posizione viene subito dopo un'accurata disamina dei film di fantascienza americani del secondo dopoguerra, condotta con tagho rapido ma anche con attenzione ai dettagh, come è tipico di Susan Sontag. La sua idea è che i film di fantascienza sono perfettamente prevedibili aha stregua dei film western. Il loro contenuto non è infatti tanto la scienza in sé e per sé, ma il disastro, «uno dei più antichi soggetti dell'arte». Inoltre, annota l'autrice, è raro che nei film i disastri siano visti in modo intensivo: la catastrofe è sempre estensiva. Sontag soheva qui un tema che l'iconografia del disastro - pittura, incisioni, film, video, televisione non ha mai ignorato: il problema dello spazio, o megho dehe proporzioni. Le dimensioni dei luoghi e dei personaggi, oltre che dei disastri medesimi, hanno un ruolo fondamentale nel cinema. I film di fantascienza si occupano di quello che è ormai diventato un genere fondamentale della cultura occidentale: l'estetica del disastro. Il disastro ha un grande vantaggio, scrive: ((libera l'individuo da obblighi normali)). Megho: ci porta ad essere soltanto spettatori: «Guardiamo». Questa estetica si è sviluppata neha nostra cultura attraverso ima pratica deho sguardo o, almeno, ne è ora parte sostanziale. Per quanto sotto l'aspetto psicologico l'immaginazione del disastro non differisca molto da un periodo storico ah'altro, come dimostrano le rovine di Piranesi o le tavole di Goya sugli effetti deha guerra, c'è un aspetto morale e pohtico che invece non è mai lo stssso. E quale sarebbe nei film americani degh Anni Quaranta e Cinquanta? La reazione inadeguata. Scrive Susan Sontag: d'imagerie del disastro della fantascienza è l'emblema di una reazione inadeguata» di fronte al terrore della guerra atomica, all'invasione degh «alieni», del nemico intemo ed estemo. E' nei film catastrofici che megho si mostrano le paure recondite deh'epoca. [...] ILTEMPO PENULTIMO La parola «apocalisse» è oggi abusata. Dopo la caduta dehe Torri molti hanno parlato di apocalisse nel senso di ((fine del mondo», o almeno di un mondo, quello dominato daha superpotenza americana, l'unica rimasta dopo il crollo del Muro di Berlino. Il significato etimologico deha parola è ((rivelazione». In origine l'apocalittica era infatti un genere letterario diffuso nel giudaismo due secoh prima deha nascita di Cristo, ma ancora presente nei testi cristiani per almeno altri due o tre secoh dopo l'espansione deha nuova religione nel bacino del Meditenaneo. Nei testi dell'Antico Testamento, in particolare in alcuni libri apocrifi, si parla deha rivelazione di cose ultime, di premonizioni sul futuro, come neh'Apocalisse di san Giovanni. Nehe sue sette lettere ahe chiese cristiane deh'Asia l'Apostolo ammonisce e consola i fedeh circa la situazione difficile dei tempi presenti, ma anche descrive la visione del giudizio finale e annuncia una nuova creazione. Si tratta di un libro ricco di simboli che ha influenzato la letteratura successiva. La fine è presentata come una catastrofe cosmica. Di secolo in secolo la tentazione di descrivere questa fine prendendo spunto da ciò che accade è rme ibride lto forte. Ma come ha notato più un autore, neha nostra epoca ocalisse ha la caratteristica di alcosa che non «finisce di fini. Una fine prolungata è ancora a fine? L'apocalisse contiene an un altro aspetto: l'attesci spaodica deha fine e insieme quella cambiamento totale, deha paenesi. Esiste anche un'apocalisvoluzionaria, quella dei ((fana dell'Apocalisse», come h ha niti Norman Cohn aha fine h Anni Cinquanta: giacomiti, abattisti, taboriti, di cui i terrorideha seconda metà del XX olo e dell'inizio del XXI sono, in do differente, gh eredi ideali. Non ho intenzione di riperconere qui questo filone religioso e pohtico. Vogho solo ricordare che accanto all'apocalittica, le cui difficoltà e aporie esegetiche non sono certo piccole, come hanno spiegato i teologi protestanti del Novecento, c'è anche un'altra figura, molto meno nota ma altrettanto importante; l'apocatastasi. L'apocatastasi è letteralmente la reintegrazione, aha fine dei tempi, di ogni cosa creata. E' la restituzione o il ristabilimento dell'universo. Nehe filosofie greche deh'etàehenistica, l'apocatastasi era legata all'idea di un tempo cicheo. Nel Nuovo Testamento indica invece l'idea di una nuova creazione messianica. Walter Benjamin ne parla nelle sue opere, riprendendo l'antico significato ebraico del termine, tenuto in vita dagh studiosi deha mistica ebraica, n cristianesimo ha invece condannato la dottrina deh'apocatastasi, l'ha respinta alla stregua di una dottrina ereticale. Il teologo che l'ha invece inclusa nel suo sistema filosofico è Origene, nel terzo secolo dopo Cristo. Origene, mancato padre deha Chiesa, sostiene la riconciliazione dell'intera creazione con Dio, compresi Satana e la morte. Egh parla di ritomo allo stato iniziale, prima deha caduta e del male. Nell'interpretazione deh'apocatastasi di Origene emerge un tema molto interessante per leggere l'epoca in cui viviamo: quella del ((tempo penultimo». Il tempo in cui ci troviamo non è infatti l'ultimo, non è il tempo deha fine - deha storia, dell'uomo, deha civiltà -, quanto piuttosto, come è stato detto, «un tempo deha fine che non finisce di finire». Con Origene possiamo pensarlo come «un tempo penultimo», un tempo opportuno, un tempo necessario, in cui anche l'apocahsse deh'11 settembre s'iscrive come possibilità e non solo come distruzione totale. I filosofi contemporanei si sono posti da tempo il problema del perché il progresso moderno si volga in catastrofe, e si sono risposti ribadendo il duphee significato del termine «catastrofe»: da un lato esso significa «svolgere sino aha fine», ((terminare», da cui deriva il significato di sconvolgimento, di totale disastro, comunemente attribuito aha parola. Ma c'è anche un altro significato: rivolgimento, cambiamento di direzione. Catastrofe come «svolta», ovvero come trasformazione, metamorfosi. All'inizio degh Anni Ottanta René Thom e altri studiosi di scienza hanno messo in luce con la ((teoria dehe catastrofi» il significato di cambiamento di forma che è impheito nell'improvvisa trasformazione. La catastrofe è da loro intesa come «ima transizione discontinua che si verifica quando un sistema dispone di più di uno stato stabile, o può seguire più di un cammino di trasformazione». In questo quadro concettuale, essa si presenta come un «salto» da uno stato all'altro, da un cammino a un altro. Gh scienziati contemporanei si occupano prevalentemente di sistemi fisici e biologici, ma il problema si pone anche per sistemi diversamente complessi come le società umane. In questa prospettiva la catastrofe non ha il significato di fine, bensì di mutamento di forma, di riadattamento. La sua unica caratteristica fissa è semmai la sua irreversibilità. UN VIAGGIO TRA LIBRI, OPERE D'ARTE, IMMAGINI E IDEE CHE AIUTANO A RESTITUIRE UN SIGNIFICATO, ALMENO PLAUSIBILE, AL NOSTRO PASSATO PROSSIMO LA «CATASTROFE» NON È SOLO UNO SCONVOLGIMENTO, INDICA ANCHE UN RIVOLGIMENTO, UNA SVOLTA, UN CAMBIAMENTO DIREZIONE LA NOSTRA E UN'EPOCA DI ESTREMISMI, MA IL TEMPO IN CUI CI TROVIAMO NON È L'ULTIMO, NON È IL TEMPO DELLA FINE (DELLA STORIA DELL'UOMO, DELLA CIVILTÀ), QUANTO PIUTTOSTO «UN TEMPO DELLA FINE CHE NON FINISCE DI FINIRE» La Storia non è finita, come asseriva Fukuyama. Anche se viviamo tra molte macerie, materiali e ideali, anche se siamo pervasi da paure e inquietudini apocalittiche, in bilico tra banalità e terrore, la nostra non è «l'epoca ultima», le catastrofi non segnano il capolinea ma il mutamento e il riadattamento. E' questo il filo conduttore di «Crolli», il nuovo libro di Marco Bel poi iti in uscita da Einaudi (pp. 140, e 7), di cui anticipiamo qui alcuni passi. Proseguendo, dopo «Doppio zero», il suo viaggio nelle forme della cultura contemporanea, Beipolitl attraversa in diagonale, incrocia e fa dialogare scrittori e artisti, filosofi e scienziati - dalla Sontag a Kundera, da DeLillo a Franzén, da Sherman e Cattelan a Baudrillard e Auge, Thom e Virilio -, cerca di illuminare per frammenti e dettagli rivelatori il senso, la direzione dei cambiamenti dell'ultimo decennio, affida alla critica dell'immateriale, dell'immaginario (compresi il cinema e la fotografia) il compito di uno sguardo che non cede all'impotenza e alla rassegnazione. IL CROLLO nn è la fine «Lullaby» di Maurizio Cattelan, un'opera composta di detriti e macerie un'immagine da «Cremasterl» dì Matthew Barney,videartista delle forme ibride

Luoghi citati: Berlino, Ddr, Europa, New York