I campioni stanchi di Giorgio Fattori

I campioni stanchi PARLIAMO DI STOCCARDA MA SENZA ISTERISMI I campioni stanchi La sconfìtta dei calciatori azzurri è un normale, spiacevole infortunio di lavoro d'un gruppo di professionisti esageratamente montati dalle speranze di tutti - Inutile scomodare il moralismo e la vecchia retorica Il giovanotto romano Franco Pera che subito dopo aver vissuto al televisore la sconfitta degli azzurri si è tagliuzzato i polsi nella toeletta di un bar (guaribile in otto giorni: anche il riscatto dell'onore sportivo ha un limite) dà il consueto tocco di folklore drammatico alla delusione per una partita perduta. Sono episodi che ogni tanto succedono. In Brasile, dopo l'inattesa sconfitta dei « cariocas » nella finalissima del 1950, due donne si gettarono dalla finestra e il centrattacco che aveva mancato il gol del pareggio scomparve farneticando per una settimana, vittima di choc traumatico. Episodi su cui si gettano i moralisti per recriminare sulle follie del calcio, i sociologi per discutere gravemente sulla alienazione del sottoproletariato urbano, gli psicologi per discettare sulla identificazione dei frustrati e dei deboli con il mito sportivo. In realtà sono incidenti di banale isterismo, non diversi e più gravi della ragazzina che tenta di avvele¬ narsi per il matrimonio del cantante preferito. Ma, al momento delle grandi sconfitte, il calcio attira al suo capezzale tutti i filosofi di complemento che vogliono dire la loro su Valcareggi e Rivera. Anche stavolta, ora che l'Italia è stata eliminata dai campionati mondiali, succederà. E sentiremo l'altra campana della retorica: quella che suona contro i miliardari viziati, i dirigenti scemi, il Barnum nazionale di cartapesta, il cieco fanatismo dei tifosi. Con razzismo alla rovescia, al posto dei « baldi ragazzi azzurri » di una volta, verranno esaltati fuori misura i superuomini, tutti cuore, polmoni e disinteresse economico, delle squadre straniere vittoriose. Sarà un miracolo se non ci scapperà come in passato l'interrogazione in Parlamento. Il risultato rischierà di essere il solito: a furia di ricercare cause generali e sofisticate — la sottoalimentazione secolare del Sud, l'avidità mercantile delle società italiane, il divismo fragile dei campioni — si per- derà di vista la realtà più semplice: che cioè nello sport si può perdere, anche imprevedibilmente e ingloriosamente, e questo non capita solo agli azzurri. Inglesi e ungheresi, maestri del calcio mondiale per tanti anni, non si sono nemmeno qualificati per il torneo finale in Germania, senza per questo sentirsi colpiti da un'umiliazione nazionale. Noi e Duvalier Accanto alle chiacchiere dei moralisti che corrono in soccorso della sconfitta, ci sono le divagazioni retoriche dell'Italia sportiva ufficiale. Poche ore prima di Italia-Polonia, la televisione ancora ironizzava giustamente sdegnata sui furori del dittatore Duvalier che ha promesso «una resa di conti » ai poveri calciatori haitiani. Ma ecco l'imprevista brutta figura degli azzurri contro i polacchi. Il telecronista, quasi a giustificarne in anticipo le rabbiose reazioni, sottolinea con angoscia l'amarezza dei nostri emigrati spettatori a Stoccarda (amarezza verissima: ma forse sarebbe meglio non costringere tanti italiani a cercare lavoro per il mondo piuttosto che pretendere che li consoli ogni quattro anni Chinaglia). La sera, faccia e voce funebri, un altro telecronista riepiloga la situazione e interroga un dirigente della Nazionale: non sarà il caso di ripartire da zero, sacrificando il campionato alla rinascita degli azzurri? La tesi è confusa, ma il dirigente approva con calore. Siamo già nell'atmosfera delle grandi riforme per eludere i problemi concreti del momento. Ed è sottinteso che in Italia le grandi riforme non si fanno mai. Non sarebbe invece più giusto constatare che polacchi e argentini hanno giocato meglio e che questo capita quando una squadra invecchia e i nuovi campioni non ci sono? Forse, ma allora non si potrebbero coltivare le illusioni: e che cioè basterà individuare i responsabili di un'organizzazione sbagliata per cancellare i segni della sconfitta. Personalmente ricordo da testimone un'altra Caporetto calcistica vent'anni fa, quando gli azzurri a Zurigo vennero buttati fuori dalla Svizzera per 4 a 1, dopo un paio di partite. Anche allora si fecero molti discorsi sul sistema sportivo sbagliato e si avanzarono ipotesi di piani rivoluzionari per il futuro. Poi non accadde niente. E toccò aspettare che arrivassero i Mazzola, i Facchetti e i Rivera per mandare a dormire sociologi, moralisti e riformatori che pontificavano sulle ragioni ancestrali delle nostre sconfitte. Sono cose che gli sportivi, con il culto magari eccessivo del campione, capiscono istintivamente, senza lasciarsi incantare da spiegazioni globali che non spiegano nulla. Senza campioni non si vince e con i campioni tutte le formule sono buone. In Germania si stanno affermando superprofessionisti volubili e venali come gli olandesi, e disciplinati operai del pallone come i tedeschi dell'Est. Vanno avanti gli argentini, che in quanto a pericolosa emotività latina non stanno meglio di noi, e gli svedesi, che giocano ancora con l'allegria dei dilettanti (pur se anche a loro, come a tutti, piace guadagnare). La sola regola che conta è avere giocatori alla altezza, senza particolari segreti di preparazione. Lo dimostrano gli olandesi che dopo l'ultima partita hanno chiesto « ventiquattr'ore per l'amore », facendo rabbrividire gli austeri custodi della tradizione. Stavolta l'Italia, per il cambio inevitabile di generazione, non aveva questi nuovi grandi campioni e l'esperienza accumulata dalla gerontocrazia azzurra non è bastata per andare lontano. Certo, l'ambiente del calcio italiano soffre da sempre di pericolose distorsioni. E' colpevole che la Regione Sarda, senza soldi per affrontare il problema dei pastori di Orgosolo, abbia dato in passato sostanziosi contributi per aiutare a pagare gli ingaggi di Riva. E' sintomatico che il primo giocatore pagato cento milioni, lo svedese Jeppson, sia stato ingaggiato una ventina d'anni fa nella città più disastrata d'Italia, a Napoli. Ma sono contraddizioni sociali che non c'entrano con il rendimento di una « nazionale ». Gigi Riva è bravissimo, anche se pagato come una stella del cinema: se è andato male in Germania, dipende dall'età o dagli infortuni, non dal troppo cospicuo conto in banca. I confronti con il più lontano e trionfale passato non servono. L'Italia, anche quella dello sport, non era migliore quando suonava Giovinezza negli stadi dei campionati mondiali e gli azzurri vincevano tutto (magari con l'aiuto di alcuni oriundi argentini e di qualche arbitro). Sano disinteresse Riportando dunque le cose alle giuste proporzioni, occorre demitizzare la sconfitta di Stoccarda vedendola come un normale e spiacevole infortunio di lavoro di un gruppo di professionisti, esageratamente montati dalle speranze di tutti, non più tanto svelti nello scatto e nelle idee di gioco. Lasciamo da parte le proiezioni sociali sul calcio, le tirate sul sottosviluppo e sui milionari viziati, le pianificazioni immaginarie di uno sport sano e disinteressato (quasi che lo sport fosse la sola cosa in dovere di funzionare bene in un Paese dove non funziona quasi niente). I problemi del calcio azzurro li risolveranno i nuovi Facchetti e Rivera, forse ancora giovanotti sconosciuti in provincia che hanno seguito confusi con dieci, venti milioni di italiani, le partite tedesche alla televisione. Verranno prima o dopo alla ribalta e le loro gesta faranno dimenticare di colpo le amarezze di una triste domenica. Non è «finita una era », come si è scritto con enfasi, sta soltanto tramontando una generazione. Con la fatale malinconia di questi eventi: facce segnate e cupe che abbiamo visto sul video alla fine della partita, attori stanchi che se ne vanno nella scontata ingratitudine di un gioco bello e feroce che non perdona ai vinti nemmeno il peccato di invecchiare. Giorgio Fattori