Come la danza sul Titanic di Ennio Caretto

Come la danza sul Titanic INFLAZIONE E PETROLIO, CRISI MONDIALI Come la danza sul Titanic L'immagine si adatta soprattutto all'economia italiana, ma nessun Paese dell'Occidente ride - L'inglese Richard Neild dice: "Il mondo non è più lo stesso; bisogna ripartire i sacrifici e il benessere, geograficamente e tra le classi" - Lord Stokes, manager automobilistico, insiste sulla necessità di eliminare gli sprechi; ma "la pace sociale è più importante dei petrodollari" (Dal nostro inviato speciale) Londra, giugno. Oltre che dall'inflazione, l'economia occidentale è minacciata dalla recessione: come scrive la Morgan Guarantee Survey, « la sua strada si è ristretta ». Negli Stati Uniti, tra gennaio e marzo, il prodotto nazionale lordo è diminuito anziché aumentato in termini reali, e in Europa, per l'intero '74, è previsto 1/4 del tasso di sviluppo del '73. Se l'Italia piange, nessun altro Paese, neppure la Germania, ride: Giscard d'Estaing propone ai francesi « sacrifici oggi per il benessere domani » e Wilson attua la strategia « dei remi in barca ». Nelle parole del Financial Times « il panorama è desolante ». Vacillano le bilance dei pagamen¬ ti, ristagnano gli investimenti, trema la Borsa abbandonata dai risparmiatori. La nuova condizione è chiamata slumpflation e ricorda ai pessimisti la vigilia del '29-'30. Il presidente dell'Ocse, Van Lennep, ha ammonito che con essa « l'attività economica e il livello d'occupazione scenderanno»; il presidente del Gatt, Long, che « esiste il pericolo di svalutazioni competitive e guerre commerciali ». L'Economist ha parlato di « un mondo con le spalle al muro »; il New York Times di nazioni (la nostra) che «danzano sul ponte del Titanic». Non sono mancate voci a conforto dei dolenti, tra di esse quella dell'americano Samuelson, che ha criticato « i profeti di sventure ». Ma anche gli ottimisti ammettono che questo sarà l'anno delle vacche magre. Perché lo spettro della recessione? Ho rivolto separatamente la domanda all'economista Richard Neild, uno dei più illustri esponenti della « New School » di Cambridge, e al presidente della British Leyland Motor Corporation, lord Stokes, uno dei grandi managers europei. « La recessione è un portato dell'inflazione e del prezzo del petrolio », hanno risposto entrambi. « Ha carattere congiunturale e può essere controllata. Ma basterebbe qualche errore per trasformarla in una crisi di struttura. I rimedi tradizionali infatti non sono sufficienti, perché essa è accompagnata da fenomeni nuovi: laccumularsi dei petrodollari, il vuoto politico di cui è il simbolo Watergate, la lotta sociale per la ridistribuzione del reddito, e così via ». Neild insegna all'Università di Cambridge, ed è tra gli studiosi più originali delle ultime generazioni. Ha 50 anni, 5 figli, una vasta esperienza internazionale: ex pilota della Raf, ha lavorato all'Onu, a Downing Street (con Attlee e con Wilson) e all'Istituto di ricerca per la pace di Stoccolma. Discepolo di Kaldor, ha spesso attaccato i neokeynesiani. Gli si attribuisce la teoria secondo cui il tasso di cambio va usato per determinare il livello di attività economica, e il budget per equilibrare la bilancia dei pagamenti. E' un uomo sportivo, che va al lavoro in bicicletta anziché in automobile, e sfoggia i modi disinvolti del funzionario americano più che quelli compassati del docente inglese. « La mia impressione », dice, « è che l'Italia e l'Inghilterra si trovino oggi nella stessa corsia di ospedale ». La tigre sul dorso L'analisi di Richard Neild parte dal '73. « L'anno scorso », egli afferma, « i Paesi industrializzati hanno conosciuto l'espansione più forte e sincronizzata dalla guerra di Corea, e i prezzi delle materie prime sono aumentati del 40 per cento, senza tener conto del petrolio. Insieme con la permissività monetaria inaugurata dagli americani e accettata dagli europei, ciò ha impresso all'inflazione i frenetici ritmi brasiliani. Si è resa così inevitabile una politica deflazionistica, di strette fiscali e creditizie. Sopravvenendo a questo punto, la crisi energetica è stata come una tigre sul dorso dell'elefante: paradossalmente, ha avuto un effetto inflazionistico e di recessione ad un tempo, squassando le bilance commerciali e riducendo la produzione ». Proprio da Londra sono venuti i paragoni tra il '74 e la vigilia del '29-30. Che cosa ne pensa Neild? « C'è, ci sarà una recessione, ma non di quella portata. I fenomeni che io ho descritto sono reversibili. Il problema di fondo mi sembra il deficit dei pagamenti. Si può risolverlo in un modo solo: aumentando le esportazioni, in qualsiasi modo. Si polemizza sui limiti alle importazioni imposti dall'Italia, ma bisogna essere realisti: in un'emergenza, io darei anche sussidi all'industria manifatturiera. Il bilancio dello Stato, però, va contenuto: guai se esso alimentasse la domanda interna. Il pieno impiego deve dipendere dalle esportazioni, farlo dipendere dal budget significherebbe soltanto aggravare i disavanzi ». La cauta fiducia di Neild è tuttavia scossa dalla consapevolezza che i provvedimenti tecnici non bastano, e occorrono innanzitutto decisioni politiche di fondo. « A mio parere, l'anno scorso s'è completato un processo di scoperta, di presa di coscienza sia delle masse, sia delle nazioni fornitrici di materie prime. Il mondo non è più lo stesso. Si tratta di decidere come ripartire i sacrifici e il benessere, geograficamente e tra le classi. Chi deve pagare per la recessione? Chi deve godere dell'espansione? In un certo senso, è il momento della verità: non si può scavare ulteriormente il fosso tra i poveri e i ricchi. I popoli si stanno alienando dai governi, le istituzioni si dimostrano tragicamente anacronistiche: queste sono le contraddizioni cui bisogna ovviare ». Conclude l'economista: «Oltre che dai conflitti sociali, la situazione è complicata dalla paralisi dei petrodollari, una vera bomba atomica a orologeria. Finora, essi sono rimasti in gran parte inutilizzati: per l'economia occidentale rappresentano perciò una specie di tassa deflazionistica di 50 miliardi di dollari annui. E' necessario un accordo per il loro uso ordinato: più precisamente, per gli acquisti dei nostri prodotti finiti da parte araba, per il finanziamento del nostro deficit energetico e per gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo. In caso contrario, sarebbe difficile evitare il caos: andremmo incontro all'iperinflazione e a una depressione catastrofica ». Discutendo con lord Stokes, nel suo ufficio di Marylebone a Londra, sento le stesse argomentazioni. Ma il presidente della British Leyland Motor Corporation, la massima casa automobilistica europea dopo la Fìat e la Volkswagen, pone l'enfasi sugli investimenti e la produttività. « Senza un loro incremento, come si fa a competere ed esportare? A nessuno piace ammetterlo, ma attraversiamo un periodo di recessione; noi da tempo (abbiamo avuto persino la settimana lavorativa di tre giorni), voi da poco. Gli investimenti sono indispensabili, perché l'etica puritana dell'impegno s'è smarrita, la gente non ama faticare, e la produttività dipende soprattutto dalle innovazioni tecnologiche. Purtroppo, ci si trastulla ancora con lo stop-and-go, tralasciando la strategia del coraggio ». Lord Stokes ha 60 anni, ed è al cento per cento un « Leyland man ». Ha studiato a Oxford, quando aveva già un impiego in fabbrica, la sua carriera è stata lunga e dura. E' entrato nella direzione nel '46, dopo un brillante servizio militare al fronte, e nel consiglio d'amministrazione nel '54, dopo aver organizzato l'ufficio esportazioni. Alla presidenza della casa dal 1968, vi ha portato aggressività e ottimismo. Sotto di lui, la Leyland ha assorbito la AustinMorris e altre marche celebri e s'è lanciata alla conquista dell'Europa. Aperto fautore dell'appartenenza inglese alla Cee, lord Stokes ha « incrociato spesso i ferri » coZ governo e gli economisti: « Sono entrambi dittatoriali e intransigenti ». « A lunga scadenza, il problema fondamentale rimane l'inflazione », egli sostiene. « In Europa, l'ultimo decennio è stata l'età delle grandi aspettative, e non sarà facile controllare la domanda interna. Ma io non ho dubbi che il '74 sia l'anno dell'austerity, e il compito immediato sia superarlo senza traumi, eccessiva disoccupazione, e calo del livello di vita. Le richieste di una ridistribuzione di ricchezza hanno qualche logica, ma esistono limiti di disponibilità. Incominciamo col mettere fine agli sprechi, sulle catene di montaggio come negli enti pubblici; col riordinare i nostri obiettivi; col non lasciarci andare a sfoghi emotivi, diciamolo pure, contro l'automobile, dato che il trasporto personale è una delle pietre miliari della nostra civiltà ». Lavoro e profitto Secondo lord Stokes, la pace sociale è un interrogativo più grave che non i petrodollari. « L'istruzione, le comunicazioni, la tecnologia cambiano le esigenze e le prospettive troppo in fretta. Oggi, una gestione alla "padrone delle ferriere" non è più possibile, le difficoltà di adattamento, anche psicologico, del management e delle maestranze crescono e si rinnovano continuamente. Non sono contrario ad una partecipazione operaia all'amministrazione, purché sorretta dalla responsabilità, e rispettosa di un certo margine di profitto. Ma occorrono onestà reciproca e spirito di collaborazione ». Al governo, lord Stokes chiede di mantenere il delicato equilibrio dei sistemi ad economia mista, e non cadere nel burocratismo, « che è già la malattia della Cee». « La questione dei petrodollari», conclude lord Stokes, « mi pare più contingente. Per ora, gli arabi non li investono in attività produttive, ma non credo neppure che li lasceranno marcire nei loro forzieri. Inoltre, il mondo occidentale svilupperà fonti alternative di energia entro i prossimi 15-20 anni. E' nell'interesse di tutti trovare una via d'uscita razionale. L'Inghilterra è stata fortunata: il rinvenimento dei giacimenti di petrolio nel mare del Nord le consentirà di vivere di credito per qualche tempo. La condizione italiana, invece, è infelice: ma penso che l'Europa e l'America vi aiuteranno, se riacquisterete stabilità e salute ». Ennio Caretto