Se il denaro è di gomma di Ennio Caretto

Se il denaro è di gomma INFLAZIONE E PETROLIO, CRISI MONDIALI Se il denaro è di gomma A Cambridge, gli eredi di Keynes escludono che la crisi odierna sia paragonabile a guerra o alla successiva grande depressione - Ritengono che il sistema ad economia quella della Germania nel primo dopomista, con dei correttivi, possa tenere (Dal nostro inviato speciale) Cambridge, giugno. Come il premio Nobel olandese Tinbergen, così lord Kahn, il più illustre esponente della old school di Cambridge, ritiene che la crisi economica occidentale sia una crisi di struttura, con profonde radici sociopolitiche. Ma come Tinbergen, confida che possa essere risolta sema la distruzione del sistema elaborato dagli Anni Trenta in poi dai keynesiani, « perché esso è assai più duttile di quanto noi non immaginiamo ». « Se il mio amico lord Keynes fosse ancora vivo, condividerebbe questo giudizio », afferma Richard Kahn. « Col tempo, le condizioni cambiano: oggi occorre razionalizzare le risorse, inclusi il capitale e il lavoro, e diminuire le disfunzioni del mercato causate dagli oligopoli industriali e sindacali. Ma a mio parere, né mutamenti né difetti inficiano la validità generale dei modelli di economia mista. A parte le riforme sociali che propongono, essi non hanno ancora esaurito tutti i rimedi tecnici a loro disposizione ». Lord Kahn ha 68 anni, s'è laureato al King's College di Cambridge, e qui insegna da quasi mezzo secolo. La sua carriera è stata legata a lungo a quella di Keynes. « Lavorammo insieme anche alla Whitehall, du- rante la guerra, ma uno al Tesoro l'altro al Commercio: ci consideravano troppo radicali, e non ci avrebbero visti di buon occhio nello stesso ministero ». E' autore di numerose opere, tra cui i Saggi sul pieno impiego e sullo sviluppo, e la crisi lo ha portato, come molti altri grandi economisti, «davanti al tribunale dei critici e degli scettici ». Mi riceve nel suo appartamento all'università, in cima ad una scala ornata da quadri della scuola di Rubens, con le finestre sul chiostro. Splende il sole, e insiste per una breve passeggiata sui verdi prati del College e la colazione al ristorante dell'antico teatro. « Ci accusano di non avere saputo anticipare le odierne difficoltà », mi dice. «Ma l'economia non è la scienza delle previsioni ». Oggi, l'Inghilterra è ossessionata dall'« iperinflazione » e su questo tema scivola inevitabilmente il discorso. Si prospetta per il '74 un rialzo dei prezzi al consumo del 15-18 per cento, e Z'Observer scrive che tra un quinquennio il potere d'acquisto della sterlina sarà un terzo dell'attuale. Nel linguaggio scientifico, riappare il termine rubber money (denaro di gomma) usato da Henry Sweeney nel 1936, e si allude al 1984 come all'anno non della catastrofe politica di Orwell, ma di quella economica internazionale. Il governo non sa quale strada prendere, e qualcuno teme di cadere da un incerto equilibrio o nello stesso caos monetario di Weimar del 1923 o in una recessione del tipo 1929. Il pieno impiego Chiedo a lord Kahn se la hyperinflation è già divenuta una realtà per l'Occidente, e se la giudica « una maledizione senza scampo », come la definiscono gli americani. « No », mi risponde, « e non credo neppure che per frenarla dobbiamo rinunciare al pieno impiego. E' chiaro che non possiamo farla scomparire dal giorno alla notte. Ma possediamo gli strumenti per combatterla ». Secondo Richard Kahn, la crisi odierna non è paragonabile né a quella della Germania degli Anni Venti, né alla successiva depressione mondiale. « Ho vissuto entrambe le esperienze. Mia madre era tedesca e nel '23 io mi trovavo a Berlino. Ricordo che il dollaro, che per 40 anni era stato quotato a 4,20 marchi, salì a 193 a gennaio, a 1 milione a fine luglio, e a 4 mila miliardi a metà novembre. Il prezzo del biglietto ferroviario si sestuplicava ogni tre giorni. Quotidianamente, facevo due o tre ore di coda in banca per ritirare una valigia di banconote. Nel '29 invece risiedevo ormai a Cambridge. Le fabbriche chiudevano, la Eorsa moriva, mancava lavoro. La povertà era angosciosa, le dimostrazioni di protesta era- no selvagge. Ma entrambe le tragedie furono l'effetto di fattori eccezionali e di un panico incontrollabile. Oggi non si praticano più una liquidità e una spesa pubblica così allegre come quelle di Weimar; e la domanda non difetta come nella grande recessione, anzi è eccessiva ». Prosegue lord Kahn: «Non dubito però che l'inflazione sia il male del nostro tempo: praticamente, non risparmia nessun Paese occidentale. Dovunque le spinte inflazionistiche sono le stesse: il boom della produzione dell'ultimo ventennio, ad esempio, che ha fatto salire i prezzi delle materie prime; la disinvolta strategia monetaria, che è sfociata in un regime di cambi fluttuanti, col pericolo di svalutazioni competitive; il rincaro del petrolio, che avrà inizialmente un effetto deflazionistico, ma poi si ripercuoterà sui consumi e sugli investimenti per fonti alternative di energia; soprattutto, gli incrementi salariali, che non rispettano più quelli della produttività, che continuano anche quando c'è disoccupazione e che hanno indotto la gente ad aspettative non realistiche ». Lord Kahn sosta per un attimo: « Questi incrementi non conoscono frontiere. Incominciarono in Francia e Olanda nel '68, si trasmisero all'Italia nel '69, alla Germania, poi a noi ». Gli strumenti per frenare l'inflazione, sostiene lord Kahn, sono una serie di iniziative congiunte, sia all'interno dei vari Paesi sia a livello internazionale. « Penso che occorra in primo luogo un nuovo patto sociale, che preveda una maggiore partecipazione operaia alla gestione delle imprese, ma che imponga anche una politica di controllo dei redditi. Tale politica dovrebbe essere concordata, per un periodo fisso di tempo, dagli industriali, dai sindacati e dalle banche centrali che, alla prova dei fatti, si sono rivelate più capaci del governo. Personalmente, sarei favorevole a una specie di congresso mondiale di questi tre organismi: la deescalation degli incrementi salariali avrebbe un notevole effetto psicologico ». Lord Kahn precisa che misure del genere non devono restare isolate. « Sono necessarie misure parallele congiunturali, di deflazione controllata, di rilancio delle esportazioni, e così via. E le riforme dello Stato ». L'economista di Cambridge insiste altresì per il ritorno del sistema monetario internazionale a parità stabili, ma con margini di oscillazioni più ampi di due anni fa, e suscettibili di piccoli ma frequenti aggiustamenti. « La fluttuazione prolungata danneggia le economie più deboli a favore di quelle più forti. Il sistema di Bretton Woods avrebbe retto, non fosse stato per le "vacche sacre" della sterlina e del dollaro, e la mancanza di collaborazione tra i Paesi industrializzati. Keynes oggi sarebbe desolato al vedere che cosa succede: egli voleva penalizzare le nazioni con un avanzo cronico ed eccessivo della bilancia dei pagamenti. In questo campo, va concessa maggiore autorità al Fondo monetario internazionale, che deve anche indicare un deprezzamento ragionevole delle divise dei Paesi in deficit». Il problema è reso urgente dalla massa di «petrodollari» che i Paesi arabi stanno per immettere sul mercato e che, tramite il Fondo, potrebbe essere usata almeno in parte per finanziare le nazioni consumatrici di petrolio. La cogestione L'analisi di Richard Kahn incontra il pieno consenso di sir Roy Harrod, già professore a Oxford, più volte consulente del governo inglese, prolifico scrittore di trattati e biografo di Keynes. Ormai settantacinquenne, l'autore di Economia internazionale (1933) e di Politica antinflazionistica (1958) vive oggi a Holt, nel Norfolk, in una splendida villa georgiana. « L'inflazione è crudele », mi dice, « colpisce innanzitutto i pensionati, le persone a reddito fisso. L'zncomes policy è una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per sconfiggerla. Tra l'altro, è l'unico modo di evitare lo stop-and-go e di facilitare la divisione internazionale del lavoro ». Harrod sottolinea che la soluzione della crisi sta probabilmente «in un'economia più partecipata»: « Sono dell'avviso che la cogestione dell'impresa vada affidata fino al 50 per cento alle maestranze, per responsabilizzarle, per ottenere una maggiore efficienza e una più equa distribuzione della ricchezza. Perché l'economia, come affermava Kennedy, è anche educazione della gente ». Discuto con sir Roy Harrod dell'indicizzazione, tra una tazza di tè e un toast con marmellata fatta in casa, davanti al caminetto dove ardono rami secchi, raccolti nel parco. Che ne pensa di questa « correzione monetaria», che è stata definita « un controllo indolore dell'inflazione » e consente aggiustamenti sistematici di ogni aspetto dell'attività economica, sulla base del rincaro della vita? « E' uno strumento nocivo », mi risponde. « I brasiliani ne fanno ampio uso. ma guardiamo i risultati: in dieci anni, dal '64 ad oggi, hanno ridotto il loro tasso inflazionistico dall'88 al 39 per cento, e non mi pare molto. Negli Stati Uniti, tale tecnica ha l'appoggio dei monetaristi come Milton Friedman, ma io ci vedo solo una resa dinanzi alla escalation dei prezzi. In realtà si scatena una corsa ad anticipare e battere gli scatti dell'inflazione: l'aspettativa è morbosa, manca la volontà di bloccare il processo degenerativo, si finisce anzi con l'alimentarlo ». « Non penso di essere giunto alla mia età », contimia Harrod, « per assistere alla caduta delle economie occidentali. Nonostante le sue contraddizioni, l'edificio che abbiamo eretto è il migliore della storia. Si tratta semplicemente di guarire certi mali. Inviterei le nazioni europee a porgersi una mano. Churchill credeva nella loro fratellanza. Rammento che, all'Aia, nel 1948, il padre di Giscard d'Estaing ed io restammo in piedi una intera notte per preparargli un discorso sull'unità europea: Churchill voleva una frase per pagina, non di più, gli appunti erano spessi come un libro. Si potrebbe incominciare dalla riforma monetaria, il dollaro non è un buon tallone, e non si può ignorare l'oro ». Sir Roy Harrod tace, immerso nei ricordi. « Abbiamo sprecato tante risorse umane e naturali, è tempo che impariamo ad amministrarci. Non sono pessimista. Finirla con gli sprechi sarebbe già un enorme passo avanti ». Ennio Caretto