Venezia e Bisanzio di Marziano Bernardi

Venezia e Bisanzio GRANDE MOSTRA IN PALAZZO DUCALE Venezia e Bisanzio (Dal nostro inviato speciale) I Venezia. 7 eiii0nn. (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 7 giugno Prima che le rotte oceaniche sostituissero i viaggi dei Polo, dei Sanudo, degli Zeno, degli altri intrepidi esploratori-mercanti veneziani che per vie di terra e mediterranee aprivano commerci ai porti della Serenissima, e prima che questa volgesse le proprie ambizioni a conquiste territoriali che l'avrebbero portata fino all'Adda svigorendo quella ch'era stata la sua innata e primitiva vocazione marinara, Venezia fu Occidente o fu Oriente? In altre parole: come si spiega la stupefacente proposta del doge Enrico Dandolo al Senato di trasferire la capitale della Repubblica veneta dalla Laguna al 13osforo, dopo l'impresa della Quarta Crociata, la conquista di Costantinopoli, e la fondazione nel 1204 del nuovo effimero Impero latino? Era una rinunzia a quanto in quattro secoli s'era costruito intorno a Rialto, o non piuttosto il riconoscimento che la « sorella minore », Venezia, si identificava con la « sorella maggiore », Bisanzio? ★ ★ La preziosa, stupenda mostra che si apre domani, palestra di altissima e « difficile » cultura storico-artistica, nel Palazzo Ducale di Venezia, intitolata appunto « Venezia e Bisanzio », è un viatico (rubiamo ad un grande critico un titolo famoso che si riferiva all'indagine su cinque secoli di pittura, anche allora, veneziana) per la risposta a codeste domande. Ma subito va detto al visitatore non specializzato in questi studi, che la sua sarebbe visita di un cieco senza la guida dell'apposito magnifico catalogo impeccabilmente stampato dalla « Electa Editrice » di Milano, che s'apre con un poderoso saggio, 60 pagine, di Sergio Bettini. Ad una ad una con perfette schede redatte da una schiera di specialisti a commento critico-filologico delle illustrazioni vi sono esaminate le oltre 150 opere esposte: un tesoro che rispecchia mille anni di civiltà artistica. S'intende che questa mostra ha una funzione particolarmente indicativa, per non dire emblematica; e lo sottolinea il Bettini stesso: « Abbiamo cercato di raccogliere più che altro degli emblemi del periodo di formazione della città », estendendoli poi fino al momento — e siamo ormai alla seconda metà del Trecento — in cui Venezia si sta volgendo verso l'Occidente, e chiama da Padova il Guariento per decorare la nuova sala del Maggior Consiglio. Tanto più perciò ci si rammarica dell'ingiustificabile veto, da parte del Consiglio superiore Belle Arti, di portare da Ravenna a Venezia la celebre cattedra eburnea di Massimiano, splendidamente scolpita poco prima del 546 per il vescovo ravennate, forse passata a Venezia e dal doge Pietro Orseolo II donata nel 1001 all'imperatore Ottone III: il più importante complesso scultoreo del secolo VI capace di offrire l'idea più pregnante dell'arte bizantina del periodo di Giustiniano, cui Venezia nascente dovette certo guardare, sia pure dalla specola di Ravenna. Ma fino a qual punto Venezia nascente — la Venezia che con le sue case e le sue chiese ancora in parte di legno (e se ne vedono nelle pitture di Gentile Bellini e del Carpaccio) si raggruma intorno al palazzo del « duca » ch'era stato in origine un funzionario dell'imperatore d'Oriente, ed alla Basilica d'oro ricominciata intorno al 1063 sotto il dogado di Domenico Contarini — guarda a Bisanzio? E quanto invece trova in sé di forza creativa autonoma? ★ * La mostra si propone di fornire un'idea dello svolgimento della cultura bizantina, quale si manifesta parallelamente alla veneziana; e basti citare l'esempio degli affreschi della chiesa di San Zan Degolà (circa 1265), che quantunque stilisticamente corrispondenti a quelli di Sopocani e di altri conventi di Serbia sono di mano d'un pittore lagunare che Michelangelo Muraro chiama « quasi un Cavallino veneto ». O l'esempio, di un'ottantina d'anni più tardo, del mirabile Crocifisso (chiesa di S. Samuele) dipinto da Paolo Veneziano, che reagì — secondo Roberto Longhi — « al modulo bizantino come un Duccio minore », concedendo un residuo di bizantinismo alla patetica testa del Cristo, e viceversa accentuando « nel perizoma elementi di chiaroscuro evidentemente continentali, e, in un certo senso, decisamente goticheggianti », come ha notato Rodolfo Pallucchini. E' indubitato che il fascino della millenaria arte di Bisanzio su Venezia fu immenso, tanto da fornire addirittura il modulo architettonico della basilica di S. Marco, derivato da quello della chiesa dei Dodici Apostoli di Costantinopoli. Lo giustificarono, questo fascino, anzitutto la necessità d'appoggiarsi, a difesa dalle invasioni barbariche, all'impero d'Oriente; poi gradatamente la spinta degli interessi più vitali, navigazione, commerci, scali marittimi nelle terre conquistate oltre Adriatico e Ionio, il rapido costituirsi della città lagunare in potenza coloniale; pareva innaturale a quei navigatori-mercanti, subito fatti forti da una compatta istituzione politica segretamente tendente all'oligarchia, qualsiasi rapporto terragno con l'Italia e il continente europeo. Lo splendido isolazionismo si rompeva soltanto verso Levante, e lo stesso meraviglioso fiorire in tutta Europa della civiltà gotica si caratterizza in Venezia nel fenomeno zrmtddgfsLceidLvfbsmsctellbMmcalffrdeidnlgocosmtbtucsgtidSbFsgemddnlpnctnècdecvagsttvlrsngdgGsitFitLdgdtaofs1netdtrlFstptAntAntlrss tipico di un gotico ch'è incon-1 fondihilmente « vcnp7Ìnnn » tipico di un gotico ch'è incon fondibilmente « veneziano ». Se non che al di là e al di sopra di questo pratico esistenzialismo, « il particolare carattere del bizantinismo veneziano male si intende se non si riflette che esso è segno di una fedeltà più antica e possiamo credere primordiale ». E' il concetto col quale Sergio Bettini spiega l'immagine cromatica, indefettibile nei secoli, che Venezia si dà fin dal suo sorgere sulla Laguna, offrendosi tutta, nella continuità degli edifici costruiti essenzialmente come « facciate », in una unità di superfici cromatiche. Siamo dunque al di fuori d'ogni misura classica, ed un Leon Battista Alberti, coi suoi volumi, le sue masse, le sue profondità spaziali, è qui impensabile a ideare chiese e palazzi. Colore e superficie in un paesaggio non plastico, perché vi mancano monti, colline, valli, boschi, ed il suo elemento è invece la luce-spazio che si plasma tra l'immobile specchio lagunare e l'azzurro pallido del cielo, collimando con l'astrazione e la stilizzazione ch'è propria dell'arte bizantina. Si pensi al mosaico, che altro non è che una luce pietrificata; si pensi all'oro delle cupole e delle pareti (San Marco) che cristallizza in forme ieratiche composizioni, atteggiamenti, gesti, sentimenti, codificati da un inalterabile rituale artistico; si pensi infine al Palazzo Ducale, il cui chiaroscuro fortissimo addensato negli archi fa da razionale base all'aereo parato, tenero di variegata cromia, dei muri pieni. Dunque la mostra si riduce essenzialmente ad un sottile, inebriante gioco dialettico tra due culture ugualmente affascinanti, primogenita l'una, cadetta l'altra, e tuttavia, questa, impegnata a foggiarsi un'individualità propria: talché, osservando le opere e leggendone i commenti ci pare di intendere un certo obliquare di visioni critiche, che si possono riassumere nella domanda del Bettini se « il bizantinismo veneziano non sia in buona misura una categoria critica di comodo » o addirittura un «luogo comune». Il fatto è che i motivi decorativi della vera da pozzo prestata dal Museo Correr sono di gusto più carolingio che bizantino, e siamo nel secolo IX; che il frammento d'affresco scoperto dieci anni fa nel battistero del San Marco (era sul muro della basilica contariniana) secondo il Furlan testimonia l'arte di maestri veneziani del Duecento che già hanno decantato e rifuso esperienze precedenti, così come i citati affreschi della chiesa di San Zan Degolà risentono d'una suggestione classica; che nella monumentale Madonna allattante del Museo Correr, capostipite duecentesco delle icone veneziane, è ben visibile la componente pisana tra i bizantinismi dei santi che la contornano. Il polo d'attrazione non è quindi soltanto a Levante; anche l'Occidente preme su questi dcigPfiomvc"cglaiElqtrqlCfmLcMccnDsgusqdcpQzlps«zcBlnsc lagunari che accolgono accenti rnmnniri anwlamld txtoAi \\ lagunari che accolgono accenti romanici, antelamici (vedi il Tocsca) per scolpire i meravigliosi Mesi dell'arcone centrale del San Marco, che — ci dicono — conservati per sette secoli, insidiati dall'inquinamento hanno ancora pochi anni di vita. Il fenomeno si condensa in un grande artista, il maggior pittore veneziano dei primi decenni del Trecento, «Paulus de Veniciis ». Di lui la mostra presenta il Paliotto del Beato Bembo, la Madonna in trono delle Gallerie di Venezia, tre scomparti del polittico con la Dormitio Virginis, la Coperta della Pala d'Oro (in collaborazione coi figli), il Polittico di Chioggia, il Crocifisso della chiesa di S. Samuele, opere comprese tra il 1321 e la metà circa del secolo. Anche Paolo Veneziano sapeva — come si legge nel « Viatico » di Roberto Longhi — « ciò che avveniva in terraferma, in "continente", a quaranta, cento, centocinquanta chilometri: Giotto agli Scrovegni; a Rimini i grandi maestri che rinnestavano l'italiano moderno a un ceppo orientale ben più antico e più alto; a Bologna Vitale e il suo ineffabile, personale goticismo ». E ad accertarci che io sapesse, basta guardare i due santi ai lati della Dormitio nei quali, notava il Toesca, Paolo pose « pur qualche cosa della capacità giottesca », benché intendesse «a meraviglia le formule bizantine », quelle che accentuò nello scheletrito Battista del polittico di Chioggia: nei tardi anni gli si faceva più vivo l'amoroso richiamo della « sorella maggiore ». * * Tenace infatti permaneva in Laguna la tradizione bizantina, continuava a stimolare, osserva il Muraro, la fantasia degli artisti più qualificati, specie quando i committenti appartenevano alle classi privilegiate. E così avveniva che i « soci » Catarino e Donato, dipingendo nel 1372 la sontuosa Incoronazione dellaV'ergine della Querini Stampalia, non fornissero più pittura, ma un capolavoro di oreficeria, di smalti e d'intarsi marmorei, rifacendosi a quei manierismi, a quelle stilizzazioni, a quei canoni del bizantinismo più ortodosso che il Toesca ha precisato insuperabilmente. E li riprendevano ancor nel Quattrocento gli iconografi veneziani che si sforzavano di emulare Andrea Rizo da Candia, un pittore che oggi qualche critico sarebbe invogliato a definire « astratto ». Il dialogo tra Venezia e Bisanzio finiva in una stanca ripetizione di temi mentre sul Bosforo la Mezzaluna sostituiva la Croce di Costantino; ma quant'esso fosse stato vivo per secoli nella città che il Petrarca chiamò Mundus alter, e di quali squisitezze linguistiche si fosse impreziosito, se ne ha adesso riprova dai capolavori esposti in quel Palazzo che nessun principe o imperatore o governo ebbe mai l'uguale. Marziano Bernardi