LE FAMIGLIE DEI DINAMITARDI FASCISTI di Remo Lugli

LE FAMIGLIE DEI DINAMITARDI FASCISTI LE FAMIGLIE DEI DINAMITARDI FASCISTI Mio figlio terrorista nero Un morto e tre arrestati per i fatti d'Abruzzo: i genitori parlano con pietà, ma anche con vergogna, delle loro vite sbagliate (Dal nostro inviato speciale) Milano, giugno. « Lo vedete questo dito storto? Me lo ruppi dando un pugno a mio figlio. Non volevo che facesse politica, ma era inutile, non serviva discutere, opporsi, nemmeno picchiarlo ». E' Gianfranco Esposti che mostra il dito offeso, sta parlando di suo figlio Giancarlo, 24 anni, rimasto ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri sull'altipiano tra Rieti e L'Aquila. « Come sarebbe stato meglio se fosse rimasto in galera anziché avere la libertà provvisoria, oppure che fosse stato travolto da una automobile », dice con accoramento. Come si sono formati questi giovani fanatici nella loro fede nera? « Non in famiglia — dice Gianfranco Esposti parlando di suo figlio —. Noi non siamo certo fascisti. Il contagio lo ha avuto nella scuola, sin da quando aveva quindici anni, dai Barnabiti. Penso che se avesse frequentato un ambiente di sinistra, sarebbe diventato di sinistra. Si era buttato nella sua idea con accanimento e rimanendo moralisticamente coerente ». In casa nascevano spesso discussioni perché la sorella di Giancarlo, Maria Pia, 22 anni, è, politicamente, all'altra estremità: qualche amico la colloca nella sini¬ stra ufficiale, qualche altro la descrive extraparlamentare. Lei, del fratello, dice che era ineluttabile finisse così, lo sentiva troppo acceso. D'altra parte Giancarlo Esposti aveva più volte detto che sarebbe caduto con le armi in pugno; e aveva manifestato l'intensione di farsi ammazzare piuttosto che ritornare a San Vittore. In libertà provvisoria, dopo essere stato condannato a quattro anni per l'esplosivo che gli avevano trovato in una cassetta della stazione ferroviaria di cui portava la chiave in tasca, aveva atteso con ansia il responso della Cassazione. La nuova sentenza, il 28 febbraio '74, gli aveva ridotto la pena a due anni e otto mesi. Significava sempre dover tornare in carcere. I congiunti dicono che era rimasto in casa, per due mesi, in attesa degli eventi, ma nessuno si era mai presentato a cercarlo. Il padre gli aveva proposto di andare in Spagna, ma lui s'era rifiutato. L'8 maggio scorso s'è deciso a partire verso l'Italia centrale e due giorni dopo le forze dell'ordine si sono presentate a casa sua con un mandato di cattura e di perquisizione. Più chiara e comprensibile la matrice che ha formato Alessandro Danieletti, 19 anni, catturato sull'altipiano di Rieti assieme ad Alessandro D'Intino, dopo la sparatoria. La madre Irma Preiser, di origine tedesca, vedova, dice: « Mio marito è stato un fascista convinto, anch'io lo ero e ho collaborato con i tedeschi, ma io sono tedesca ». Non nasconde il suo ricordo nostalgico per quel regime, perché non sia intaccato vuole distinguere tra i fascisti e i terroristi, quelli che ora usano il tritolo. Nella sua casa, un modesto appartamento di via De Alessandri 7, dove lavora come traduttrice, molte cose richiamano alla mente il nazismo: fotografie di parenti in uniforme, scritte politiche in tedesco. Nella stanza del ragazzo, tra due poster di moto e auto da corsa, c'è una fotografia che riproduce una fila di soldati nazisti con il mitra imbracciato. « L'aveva affissa lui, diceva che gli piaceva ricordare quei tempi ». La madre racconta del suo Sandro che era « tanto buono, un ragazzo d'oro », ma poi aveva conosciuto cattive compagnie, addirittura il fratello di un boss della prostituzione e così aveva incominciato a rovinarsi. Il 25 marzo di quest'anno Danieletti era stato coinvolto nel ferimento di una ragazza, Chiara Antola, ed era sottoposto a mandato di cattura per tentato omicidio. « Così se n'è andato e io non l'ho più visto — dice la donna —. Ogni tanto mi telefonava, mi chiedeva di portargli indumenti in qualche posto. Non mi diceva cosa faceva e dov'era, né io glielo chiedevo. Mi bastava sentirlo, sapere che stava bene ». Il portone di via Uruguay 7/D è dipinto per metà con vernice fresca. « Lo sa perché? — dice Maria Cristina Vivirito, madre di Salvatore Vivirito, diciottenne, che è fuggito dall'accampamento reatino per farsi poi arrestare a Milano in casa di un'amica — perché sono state cancellate delle scritte che dicevano "A morte Vivirito, ti ammazzeremo come un cane " ». La madre ha una cinquantina d'anni, il padre sessanta. Lui ha chiuso da poco un'industria di dolciumi, perché malato. Respira a fatica. Dice: « Qui, in casa mia, non s'è mai discusso di politica. Io sapevo che Salvatore era di destra, sapevo anche che non riuscivo a fargli cambiare idea e allora non volevo nemmeno sentirlo parlare ». Nel novembre '72 Salvatore Vivirito era stato coinvolto nel ferimento dello studente Tiziano Alderighi all'istituto tecnico Cattaneo, lo avevano internato al Beccaria. « Sarebbe ancora là adesso — dice il padre — se non avessi mosso delle pedine. Cinque mesi dopo è uscito prosciolto, ma più fascista e più accanito di prima, esasperato per l'ingiustizia del carcere fatto da innocente». Dice la madre: « Sapeste che pena per noi, vivere con un figlio così, in questo quartiere che è tutto di sinistra, e leggere sui muri le scritte contro di lui, ricevere lettere con un proiettile " uguale a quello che gli spareremo in fronte ". Che pena! E lui che un po' stava, un po' andava e non si sapeva mai dove andasse. Del resto come si fa a chiederglielo, quando uno ha già diciotto anni e si sente uomo? ». Il ragazzo studiava da perito, in una scuola serale, ma ne aveva poca voglia. Spesso batteva cassa: «Babbo, dammi cinquemila lire, vado a cena con amici; babbo, dammi diecimila lire, mi servono ». Quante gliene dava al mese, centomila? «Forse circa così » dice il padre. La madre commenta: « Come è diffìcile fare i genitori al giorno d'oggi. Si finisce per essere sempre incolpati. Vorrei non avere avuto figli ». Salvatore è stato arrestato in via Costa 33, nell'abitazione di Silvana Ines Bertero, 38 anni, anch'essa finita a San Vittore per favoreggiamento. Maria Cristina Vivirito se ne rammarica. Dice: « Ma lei non c'entra nulla. E' una nostra ex vicina di casa che ha visto crescere mio figlio e lui spesso l'andava a trovare, anche perché è amico del suo figliolo ». Casa di Alessandro D'Intino, 21 anni. Padre e madre sono davanti al televiso¬ re, il Telegiornale sta parlando dei terroristi di Rieti; si tace, si assiste in silenzio alla trasmissione, con il flato sospeso. Poi, le prime parole: « L'unica speranza nostra è che lui non c'entri con la tragedia di Brescia ». Come è diventato fascista, Alessandro? « A scuola, in collegio, un collegio tenuto da preti, non a Milano, in un'altra città, non voglio dire dove », risponde il padre. Lui è bancario, lei impiegata, vivono in un alloggio di due camere e cucina, hanno un altro figlio, oltre ad Alessandro. Ecco qui il dramma, piangono tutti e due, parlandone. L'altro figlio, venti anni, è mongoloide, ora sta sul balcone della camera da letto, si sente arrivare la sua voce, suoni gutturali indecifrabili. Dice la madre: « Abbiamo voluto tenere con noi questo figlio malato, e abbiamo fatto male. Credevamo di salvare tutto, e abbiamo rovinato tutto. Per Alessandro la presenza del fratello mongoloide è stata un trauma continuo, ha rovinato il suo carattere. E noi, per tenerlo lontano dalla vista di questo spettacolo deprimente, l'abbiamo messo in collegio. Così non abbiamo potuto seguirlo bene, è stato facile preda di amici che avevano ascendente su di lui ». Alessandro torna a casa dal collegio e si rivela fascista. Viene implicato nel ferimento Alderighi, finisce in carcere; esce due mesi dopo, prosciolto. E per festeggiare l'evento va a Brescia, a casa di amici, tra cui quel Kìm Borromeo, poi arrestato perché trasportava tritolo. Nella stessa notte là c'è un attentato, nella sede del psi, lui viene arrestato. «Ma Sandro dormiva — dice la madre, con una convinzione commovente —, lui non c'entrava con l'esplosione, hanno fatto tutto gli altri a sua insaputa, ma si è buscata la stessa loro condanna, tre anni di carcere ». Il 18 dicembre '73 D'Intino esce in libertà provvisoria, in attesa che la Cassazione si pronunci. La seduta per la nuova sentenza è annunciata tre volte e sempre rinviata. L'ultima data era quella del 27 maggio scorso. « E' per quello che se n'è andato — dice il padre —. E' partito il giorno 22, per evitare che lo arrestassero di nuovo in caso di conferma della condanna. Adesso, che vergogna: è implicato in questa vicenda tragica. Ma io non posso pensare che sia corresponsabile dei fatti di Brescia. Sarebbe meglio la morte ». Remo Lugli