Inchiodato dalla saliva su una tazza «rubata»
Inchiodato dalla saliva su una tazza «rubata» L'INCHIESTA PARTE CON LA TESTIMONIANZA DI UN COMMESSO: «LA RAGAZZA HA DETTO CHE AVEVA APPUNTAMENTO CON LO ZIO» Inchiodato dalla saliva su una tazza «rubata» test del Dna rivelano che capelli e tracce sul corpo sono di un parente Indagati per favoreggiamento gli amici che avevano confermato l'alibi retroscena Fulvio Milone MANFREDONIA (Foggia) UNA frase pronunciata da Giusy prima di scomparire, una tazzina da caffè «rubata» dalla polizia per l'esame del Dna dell'assassino, una ciocca di capelli sotto le unghie della vittima e finalmente, l'altra notte, la confessione finale: «Sono stato io, ma non volevo che finisse così. Ho distrutto due famiglie, la mia e quella di lei». Non è stato facile arrivare a Giovanni Potenza, ma alla fine Antonio Lauriola, 45 anni, sposato e padre di tre ragazzi, capo del commissariato di Manfredonia, ce l'ha fatta. Aveva promesso a se stesso che avrebbe messo le manette a chi aveva ucciso Giusy, e ha mantenuto la parola. E ora, nel suo ufficio, dopo quaranta giorni di tensione, di indagini serrate e condotte senza dire una notizia che fosse una ai giornalisti, tira un sospiro di sollievo: «Che vuole che le dica, io sono di San Giovanni Rotondo: evidentemente Padre Pio ci ha dato una mano. Però abbiamo anche fatto un gran bel lavoro». Ma Lauriola smette subito di sorridere al ricordo di quel cupo e piovoso 13 novembre, quando vide il corpo massacrato di un'adolescente, poco più che una bambina, abbandonato come una vecchia bambola rotta in un campo incolto davanti al mare di Manfredonia. «Ci sono delitti e delitti - commenta -. Questo ha segnato per sempre la mia vita. Sarà perchè ho una figlia che ha pressappoco l'età di Giusy...». Gli indizi, come sempre accade in un'indagine di polizia, erano tutti lì, mescolati a mille altre tracce che non portavano a nulla. Il problema era individuarli e incasellarli nel posto giusto, fino a comporre il quadro finale con il ritratto dell'assassino. Il primo, pallido sospetto che a uccidere Giusy fosse stato un parente, si è affacciato grazie alla testimonianza di un commesso di un negozio di ed dove la ragazza era entrata poco prima di scomparire: «L'ho sentita discutere con un ragazzo, poi lei ha detto che doveva andare perchè aveva un appuntamento con uno zio che sarebbe venuto a prenderla in macchina». Quale zio? «Sciocchezze, era solo una scusa per liberarsi del suo interlocutore», hanno detto i familiari della ragazzina, che certo non sospettavano di avere l'assassino praticamente in casa. Ma quella breve frase buttata lì da Giusy prima di incontrarsi con l'uomo che l'avrebbe uccisa, si è insinuata come un tarlo nel cervello degli investigatori che, in quei giorni, interrogavano decine di testimoni e formulavano le ipotesi più disparate per un delit- to che aveva sconvolto un'intera cittadina. Un aiuto decisivo è giunto proprio dal corpo di Giusy. Durante l'autopsia i medici legali hanno trovato alcuni capelli sotto le unghie e tracce di liquido seminale. L'esame del Dna ha fatto il resto: i capelli e la materia organica appartenevano a un parente della ragazzina. Il collegamento fra il risultato delle analisi di laboratorio e la frase prounciata dalla vittima prima di scomparire («Ho appuntamento con un mio zio...») è stato immediato. L'attenzione degli investigatori si è spostata definitivamente sulla cerchia dei familiari di Giusy; e in particolare su Giovanni Potenza. Anche lui interrogato come tutti gli altri poche ore dopo l'omicidio, ha fornito un alibi, e l'alibi è stato confermato da alcuni amici che, ora, sono sotto inchiesta per favoreggiamento. A colpire gli investigatori, però, è lo strano comportamento di Giovanni: gli hanno ammazzato la nipote, ma lui non ha partecipato neanche ai funerali; si è limitato a una breve visita di condoglianze ai genitori, ha fatto un salto in commissariato per un veloce interrogatorio formale, poi si è imbarcato per una lunga battuta di pesca. Una traccia importante, però, Giovanni Potenza l'ha lasciata a sua insaputa dietro di sé: un po' di saliva, «rubata» dagli investigatori pare da una tazzina di caffè e mandata in laboratorio insieme ai bicchieri da cui hanno bevuto durante gli interrogatori tutte le persone convocate in commissariato. Il risultato si è rivelato una prova schiacciante di colpevolezza: chi ha bevuto il caffè, cioè Giovanni Potenza, è la stessa persona che ha lasciato capelli e liquido seminale sul corpo di Giusy. Ma individuare un assassino non sempre basta a mandarlo in galera. Ci sono le leggi da rispettare, e una legge dice che quell'esame fatto senza il consenso dell' indagato non avrà alcuna validità durante il processo. Il pescatore Giovanni Potenza, però, non conosce il codice penale. Un punto a vantaggio degli investigatori che l'altra notte, durante l'ultimo interrogatorio, lo hanno affrontato a muso duro: «Abbiamo il Dna, sei stato tu ad ammazzare Giusy. Ti conviene confessare». E lui ha confessato. Individuare il colpevole non sempre basta a farlo condannare Secondo la legge l'esame genetico fatto senza il consenso dell'indagato non avrà alcuna validità durante il processo Lo «zio» non è andato ai funerali, si è limitato a una breve visita di condoglianze. Subito dopo il formale interrogatorio in commissariato è tornato in mare su un peschereccio Giusy Potenza. A sinistra il cugino Giovanni, che ieri ha confessato il delitto
Persone citate: Antonio Lauriola, Fulvio Milone, Giovanni Potenza, Giusy Potenza, Lauriola, Padre Pio
Luoghi citati: Foggia, Manfredonia, San Giovanni Rotondo
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