LISA

LISA LISA Se non ci fosse 6tato il picchiettio stracco della macchina da scrivere, nessuno si sarebbe accorto che nella stanza c'era una creatura viva Viva? Angelo era entrato con circospezione, senza il minimo rumore. Spesso entrava così, o per acclimatarsi prima di far notare la sua presenza o per non agitare la malata. Le persiane sulla terrazza erano chiuse e la scarsa luce, filtrando attraverso le stecche, appesantiva di più la penombra della stanza. Tutta la luce del gran giorno che Angelo s'era lasciata alle spalle, moriva là dentro. Egli sentiva il sangue affollarglisi nelle vene del collo e aveva ancora gli occhi abbacinati dai colori sfarzosi delle aiole e dal cielo azzurro, fatto più squillante per certe sparse, procaci nuvolette gonfie di luce. Là dentro era tolto anche ai vivi il piacere di sentirsi vivi. Tutto era opaco, inerte, inarticolato, come sospeso in un'atmosfera senza speranza, là dentro. A poco a poco, mentre gli si placava il tumulto del sangue • le pupille s'adattavano alla penombra, Angelo distingueva. Quei capelli, che tante volte avevano lambito la sua pelle come fiamme vive, «orano diventati come un mucchio di stoppia spenta che avesse restituito alla terra tutta la propria linfa. La bella testa, che si rizzava con la sensibilità e la fierezza di una puledra purosangue, oh, quella testa di cui vedeva ora in iscorcio la linea emunta di una guancia, era ridotta alla dura fissità del teschio. E il braccio che si sollevava a stento alla tastiera e le dita irrigidite, quante volte avevano mosso l'aria con la vivacità e la grazia con cui ogni bella donna sa crearsi intorno la propria atmosfera. Angelo, rimasto tutto il tempo in piedi appoggiato alla porta, la riaprì e la richiuse subito con lieve rumore. Fingendo d'esser entrato allora allora, disse dolcemente t — Sono io, Lisa. Non si potrebbe dare un po' di luce a questa stanza t Ti lasciano sempre al buia Andò a schiudere le persiane. La luce irruppe con violenza e si rovesciò sulla poltrona, sul volto dell'ammalata, sul grumo- di vesti che copriva il suo misero corpo. Lisa sbattè le palpebre, 1 suoi grandi occhi dalle occhiaie livide, nella faccia tutta ammaccata sotto l'infarinatura della cipria, parvero come quelli di un uccello notturno sorpresi dal giorno. — Oh, scusami. Forse è troppo, ora — disse Angelo, 'riaccostando le persiane, ma nello stesso tempo aspirando profondamente l'aria calda di fuori, carica di profumi. — Stavi scrivendo? —i Stavo scrivendo — ripetè l'ammalata. Moveva con orribile fatica la bocca e le parole le uscivano a stento, spremute, come levigate, dai denti. — Come va oggi? — Stavo scrivendo a Caterina — riprese Lisa, senza rispondere alla seconda domanda. — Immagino che le stai scrivendo una lettera sconsolata. Perchè così econsolata, mia Lisa? Ci sono delle buone speranze, lo sai ? Con certe nuove iniezioni, m'ha detto il dottóre, si possono far miracoli. — Perchè mentiva? Angelo s'era avvicinato a (Lisa e le aveva, con una mano sotto il mento, sollevato delicatamente il volto. Guardava nei suoi occhi spalancati e si sentiva attratto e respinto da quei vortici cupamente luminosi. Soltanto questa luce, di tutta l'esuberante vitalità di un tempo, era rimasta a Lisa. I suoi occhi s'erano ingranditi, facevano misterioso specchio alla sua anima. Lo mettevano a disagio e però certe volte cercava d'affrontarli, ma a ogni prova sentiva sempre più la propria debolezza, la fenditura d'un rimorso cocente che lo avviliva e insieme lo esasperava. Lisa continuava a fissarlo e non rispondeva. Sembrava volesse trapassarlo s leggergli nel fondo. (La luce dei suoi occhi mutava, come rapida corrente che da zone brillanti di sole passasse in zone incupite dall'ombra. — Non vorresti dettarmela, la lettera? Fai tanta fatica... Te la scrivo io. — Una lettera esangue, con le tue mani gonfie di vita ? No, la finirò io, dopo. Ho tanto tempo per il mio sillabare. Volgimi, ti prego, la poltrona. Apri pure un po' ili più le persiane. Non ho paura io della vita: non mi tocca più, è la vita che ha paura d'entrare qui dentro. Angelo afferrò la poltrona e la trasportò con ostentata facilità verso la terrazza. Il corpo di lei non pesava più di quello d'un passerotto. Le aggiustò le gambe, inerti come due cenemi sotto la coperta, e si costrinse violentemente a celare il ribrezzo, perchè Lisa non lo lasciava neppure un attimo con lo sguardo. Un lievissimo sarcasmo le sfiorava le labbra. Ora parlava più spedita, quasi avesse ritrovato il meccanismo delle parole, per quanto ogni suono fosse ancora attentamente sorvegliato dalla sua vigile coscienza. — Ieri sera, dalla terrazza, è volato un passero qui dentro, cercava rifugio, poverino, era stremato e mi morì tra i piedi. L'infermiera, che viene a mettermi a letto, lo trovò e lo gettò di fuori, nella siepe. Forse è ancora là. Si seccherà al sole o marcirà nell'ombra, è lo stesso. Angelo aveva aperto le persiane. Gli ippocastani e i platani brillavano al sole, gli uccelletti facevano oscillare i rami più giovani e cinguettavano, la collina lassù sorrideva invitante. Egli guardava fuori e respirava allargando le narici. Aveva quasi dimenticato la storia del passero morto. Non parlava. — Mettiti a sede qui vicino, Angelo. Volevo chiederti una cosa. — Dimmi, cara. — Angelo le si sedette vicino. — Non arrabbiarti. Perchè continui a venire qui ? • — Oh, Lisa — disse Angelo con accento accorato, prendendole le mani. — Vedi, se tu potessi rispondere sinceramente, saresti tu stesso sollevato. No, non turbarti, non credere ch'io sia come prima. Sono lenta nell'esprimermi, ma la sciami finire, abbi pazienza Ho rotto tutti i fili. Faccio delle strane considerazioni sul teatro della vita. Sai quelle marionette che non servono più... — Lisa, Lisa. Ti capisco, sei esasperata. — No, non io. Sono tranquilla ora, come una palude, credimi, tu, Angelo, sei esasperato. Sei esasperato d'«a ser qui, esasperato per il tempo che rubi alla tua vita. Hai tutte le ragioni. Tu Bei valido, tu sei come quelli uccel li che volano là fuori. Per la collina ci sono ancora le atra de. Le nostre strade? No, le strade per tutti coloro che sono vivi. E tu ci vai. Oggi, bada, non te lo dico più neppure con l'ombra dell'invidia. Un tempo, per questo, ti odiavo. Ero gelosa. Ti vedevo, ti seguivo morbosamente con l'immaginazione per ogni passo, ti sentivo parlare con la tua nuova amante. Perchè negbi? Puoi stare tu senza una donna che risponda col sangue vivo al tuo sangue? Angelo, non avere pietà di me. La tua pietà m'offende. Angelo soffriva veramente, ma soffriva per tutt'altri motivi di quelli che fingeva a se stesso. Lisa lo denudava. Era tutto vero e limpido quello che diceva; ma egli, nel rimorso, vi aggiungeva un accento di rimprovero che lo indispettiva e lo umiliava davanti alla propria debole coscienza. cVa, ecco, ella ti dona la libertà, accettala, hai tutto il diritto d'approfittarne». — Ma, Lisa, quanto sei cattiva, quanto male mi fai. Come, come posso }o dimenticare?... — E allora, in fondo a te stesso, non puoi desiderare se non ch'io non ci eia più. Trovarmi come quel passero e buttarmi di là, nella siepe. tNon c'è alcun rimedio, nessuna speranza di ricacciare il male, il processo può arrestarsi, può durare, così anche dieci anni, ma guarire mai più*. Le parole del medico gli serpeggiavano ora, nel ricordo, come brividi per la nuca. A un tratto (Lisa allungò le sue misere braccia. C'era forse in lei la volontà d'afferrarlo per il petto, ma quelle sue mani, pallide come foglie autunnali sul punto di staccarsi dal ramo, ricaddero docili e pietose eulle mani di lui. — Credi che non me ne accorga dello sforzo che fai a venire, povero Angelo. Credi che non sappia che cosa porti di te qua dentro! Riconoscenza per quello che ti ho dato nel passato? Oh, allora, non dovresti più guardarmi. M'immedesimo in te e inorridisco. Lentamente Angelo era scivolato -mlle ginocchia. Aveva nascosin il volto su quel 0vero grembo che quasi non esisteva più. Le sue forti spalle sussultavano. Giani Stuparich Ne! corso di una cerimonia al Museo del Louvre, è stato consegnato a Ingrld Bergman l'Oscar francese, consistente in una copia della « Vittoria di Samotracia > HIIIIIIIIII!irillIlllllllllllMIIIIIIItlllllIlllllllllIIII1llllllllllll!1IIIII|(l:l>lllllllllllIlllllllllllI1IIIIIIID

Persone citate: Giani Stuparich, Ingrld Bergman