In morte di Filippo Burzio

In morte di Filippo Burzio In morte di Filippo Burzio Plebiscito di compianto da tutta Italia Un grande piemontese n o a i i a . i i i i e a e Gli avevo chiesto l'altra sera se avrebbe partecipato ad una serie di conferenze per il centenario del '48 che altri amici progettano e si era scusato con la malattia di cuore che repentinamente ce l'ha tolto. Ora che egli ci ha lasciati vorrei, più che sulla concezione del liberalismo nobilmente idealistica, sulla sua sincera passione di federalista europeo, sull'arte schietta con cui egli rése figure ed aspetti del Piemonte nuovo ed antico, sul sincero e tenace antifascismo (dopo la sua morte mi è pervenuta una lèttera che accompagnava una delle solite anonime e diceva: « Prendiamo insieme la nostra parte d'ingiurie») soffermarmi sul modo col quale egli ha sentito il nostro Risorgimento, la parabola che, muovendo dall'illuminismo settecentesco, giungeva fino alla saggezza di Giolitti, alla guerra di Libia, ad un'Italia consolidata e rispettata Burzio, davanti alla vitalità di Cavour, a quella sua energia spregiudicata, arre trava e si adombrava. Nel suo ultimo libro « Anima e volti del Piemonte », egli ha un capitolo su Cavour ed 11 '59 che per me è forse la co sa più colorita e vivace che egli abbia mai scrìtto. Quel Cavour sfibrato dalla politica e dalla Ronzani, che non ri fiutava mai nulla nè donne nè gioco, nè lettere nè studi nè intrighi, uomo d'affari (come mentalità, intendiamoci, non come profitti) era agli antipodi dello spirito contemplativo di Burzio, per il quale il Demiurgo «saggiamente collabora col tempo, concede a se stesso ampi respiri e riposanti prospettive ». Alla diavoleria di Cavour « stregone scomunicato», Burzio contrapponeva la calma di Goethe, il gusto di teorizzare quel senso tutto filosofico e scientifico che costituisce l'antitesi dell'azione. Eppure, nonostante questa diversità di temperamento, Burzio sentiva 11 fascino di Cavour e di D'Azeglio ed è stato uno*, dei creatori della immagine artistica di Giolitti.' Perchè dietro alle banche, alle ferrovie, alla canalizzazione ed alla concimazione, al mondo degli affari anche politici di Cavour; alla vocazione di pittore e di ganimede di D'Azeglio'; al ritratto da notaio di campagna e burocrate di Giolitti, egli ritrovava ed ammirava quel fondo di serietà, di austerità, di piemontesissimo decoro che era nella sua natura. Cavour e D'Azeglio possono avere «diavolesse » e debiti, ma al momento buono si comportano da galantuomini e nessuno potrà mai mettere in dubbio il loro disinteresse, amor di patria lealtà alla causa liberale. Fin dal suo primo libro « Ginevra - Vita nova », di cui anch'io, critico esordiente, fui lieto di segnalare subito le qualità di stile, Burzio apprezzava direi quasi protestanticamente la serietà della vita e pochi come lui restarono fino all'ultimo estranei all'ironia, al sarcasmo, al libertinaggio di ogni genere. Attraverso questa concezione morale del mondo, egli vedeva il Risorgimento quale esplosione di generose e cavalleresche passioni, nobile gara di sentimenti. Altri ha potuto, analizzando e scomponendo il '48, mettere in rilievo le manchevolezze ed i contrasti. Della politica della casa regnante, Burzio sottolineava, non come gli avversari le indecisioni tortuose o le oscurità, bensì i punti fermi, gli atteggiamenti migliori: al Carlo Alberto del 1821 e dei processi del 1833, egli preferiva l'uomo della cam pagna d'Indipendenza del '48 e l'esule del '49 ;• di Vittorio Emanuele n elogiava il programma di Moncalieri... A sospingerlo per tal via era un senso poetico della tradizione, la convinzione che le lezioni del passato non sono vane l'idea che ciascun popolo ha del blasoni di nobiltà che, qualunque cosa avvenga, non conviene mai rinnegare. Il Risorgimento era per Burzio un po' la galleria dei ritratti di famiglia del Piemonte, l'altare per il culto degli antenati e si capisce che chi posa per la posterità compone ed atteggia i suoi lineamenti. Cè stato chi ha parlato di conquista dell'Italia da parte del Piemonte: Burzio non ha mai avuto il menomo dubbio sulla sua legittimità e la tradizione governativa sabauda era certo per lui una galleria di civiltà e di libertà ed andava dal marchese d'Ormea a Quintino Sella ed a Giolitti, senza interruzione. Cattaneo, Mazzini, Garibaldi erano ai suol occhi altra gente che non si inquadrava nella sua storia se non di sbieco: il materialismo del primo, il misticismo romantico del secondo, i colori troppo vivaci del terzo rappresentavano un'eresia nel tono generale del regno Sardo e persino Cavour, come prova il capitolo già richiamato, finiva per sembrargli un po' troppo spregiudicatamente anglo-francese, un fi¬ dbntflpvsFmmucadtf glio di famiglia che è stato all'estero. Abbozzo un atteggiamento spirituale che mi pare interessante e so benissimo che Burzio, riconoscendo le proprie tendenze conservatrici, era ricco di sfumature e di approfondimenti umani: anziché ridurre l'essenza del liberalismo all' individualismo puro, egli tendeva a dargli un contenuto sociale molto evidente. Ma mi lusinga che la sua ambizione sarebbe stata soddisfatta col riconoscimento che nella galleria dei piemontesi illustri c'era un posto anche per lui, come è ben certo. A un'altra cosa egli teneva particolarmente e me lo aveva detto ancora in questi giorni, e cioè che si riconoscesse con quale spirito liberale egli aveva accolto ed ospitato opinioni talora diversissime dalle sue, ciò che prova non soltanto una Inconsueta serenità di giudizio, ma anche delle doti di equilibrio, di tolleranza e di cuore che sempre rimpiangeremo. Arrigo Cajumi