E' del sarto il fin la meraviglia

E' del sarto il fin la meraviglia A Parigi vezzi e splendori in centoquarant'anni di abiti da sera E' del sarto il fin la meraviglia Una moda riservata a tremila signore EPARIGI E sfilate dell'Alta Moda, soprattutto parigina, hanno adottato, da tempo, una regola di rado smentita: una buona metà d'ogni collezione riguarda gli abiti da sera. E' il fuoco d'artificio della passerella, ne costituisce l'acme e testimonia, nella ricchezza senza limiti di abiti stupendi, la forza dello stilista e il potere economico delle sue clienti. Una parte di quell'esiguo stuolo di donne, si calcola non più di tremila nel mondo, in grado di acquistare abiti che costano dai cinquanta ai duecento milioni di lire, spesso li valgono. Come per i versi dei poeti d'Arcadia, il fine dello stilista nei suoi abiti da sera è la meraviglia. Da quando, esaurita l'anarchia vestimentaria dei nostri Anni Settanta, è tornato in auge presso i grandi sarti francesi il cosiddetto lavoro d'atelier, alcuni abiti, tailleurs da gran sera, interamente ricoperti dal ricamatore Lesage di perline e canutiglia, paillettes e pietre, disegni astratti o figurativi, sono apparsi vere opere di un'arte applicata, che hanno il pregio di mantenere in vita. Abilità incredibile, nessun risparmio di tempo; non diversamente che all'epoca di Eugenia di Montijo, per l'abito donatole dalla città di Nancy: in chiffon, interamente ricamato a ghirlande di violette, ortensie ed api, richiese a ottantaquattro donne un anno di lavoro. Le tremila signore dell'attuale star-system non sono costrette dal loro calendario mondano, come le eleganti della Belle Epoque, a cambiarsi d'abito, sempre importante, anche cinque volte al giorno, ma, in epoca di trasporti veloci, sono autentiche forzate del presenzialismo ai party, ai gala che contano da New York a Zurigo, dalla Svezia a Marrakesh. Cambiare look è d'obbligo, se non cambiano le persone. Valentino vende ogni anno, di qua e al di là dell'oceano, novanta abiti da sera, che sono i veri best-seller dell'Alta Moda di Saint Laurent, Versace e di quasi tutti i sarti francesi. Ancora oggi, sveltito nella forma ma sempre favolesco, l'abito da sera mantiene il suo fascino. Una rilettura della sua evoluzione è l'importante mostra, con relativo monumentale catalogo, aperta fino al 28 ottobre a Parigi, al Museo della Moda e del Costume di Palazzo Galliera. Titolo: «L'abito da sera dal 1850 al 1990». Centoquarant'anni e le originali risposte dei creatori francesi ai diversi bisogni di otto periodi storici, analizzati nei loro specifici comportamenti sociali: il Secondo Impero, i primi trent'anni della III Repubblica, la Belle Epoque, seguiti dagli Anni Venti e Trenta, fino al secondo dopoguerra e all'ultimo ribollente trentennio del nostro secolo. Non figura purtroppo alla mostra neanche uno dei magnifici abiti di Eugenia, descritti dai memorialisti e dai ritratti di Winterhalter. Come Maria Antonietta, Eugenia operava uno spoglio del suo guardaroba due volte l'anno, beneficiando le dame d'onore che subito lo vendevano a caro prezzo alle ricche americane dell'epoca. Ma bastano a lumeggiare la frenesia di vivere, che caratterizzò la riorganizzazione della vita mondana sotto Napoleone III, l'abito da ballo in taffetas rosa e crema, la rotonda gonna arricciata, il corsetto puntito e la vasta scollatura ovale in un profluvio di pizzo Malines, molto simile e quello portato dalla Principessa di Essling, sempre al fianco dell'imperatrice nei dipinti ufficiali; e quello bianco e nero in organza, la nuova gonna a crinolina piatta e proiettata all'indietro, ornata di merletto Chantilly. Abiti da sera, cioè da ballo, massima consacrazione d'ogni avvenimento del tempo, abiti luminosi, spesso bianchi, punteggiati d'oro e avvolti di tulle fiorito, come li preferiva Eugenia. Anche nel 1858, il giorno dell'attentato di Orsini, portava un abito bianco, che conserverà macchiato di sangue durante tutta la rappresentazione all'Opera. Abiti tuttavia legati ad un codice rigoroso, utile a rafforzare l'etichetta. A un ricevimento grandioso una dama d'una certa età, che aveva osato presentarsi con décolleté velato, fu riaccompagnata all'uscita. Era infatti denudando al massimo le spalle e il seno che la donna testimoniava l'importanza dell'incontro mondano. Nulla di diverso dal Settecento, ma era mutata la sensibilità: il décolleté esprimeva ora una funzione sociale, era un linguaggio di circostanza, rotto il legame fra nudità ed erotismo. Le ricche eleganti avevano un abito per ogni tipo di serata, ma le riviste femminili, non certo l'elitario Moniteur de la mode, venivano incontro alla maggior parte delle donne, proponendo abiti a trasformazione, un'unica gonna con molti corsetti a diversa scollatura per il tea¬ tro, il pranzo, la sera intima. La dichiarata rottura fra erotismo e nudo, in corso per la signora bene in carne del Secondo Impero si consuma appieno verso il 1873 nel diffondersi della cosiddetta «robe habillée», l'abito quasi sempre nero, che si rivelerà intramontabile. Sempre in ricche stoffe, si poteva indossare a fine pomeriggio, aggiungendovi per la sera un gilè di seta, bretelle di pizzo di Bruges; scollato a volte fino alla vita, aveva spesso il collo montante, guarnito d'un collare gioiello, risultando molto più eccitante della nudità. La vita mondana, fra gli anni 1870 e 1890 della III Repubblica, si svolgeva nei salotti, che ora, moltiplicati e in primo piano, rispondevano nella loro immobile chiusura al piacere dell'esclusione. Durante la Belle Epoque si scoprono i ristoranti, i musichall, i cabaret, dove appena venticinque anni prima solo le «demi-mondaines» avrebbero osato entrare. Il calendario mondano si infittisce, sj sfaccetta. E' il tempo dei sarti importanti, delle attrici famose, si vive fuori, tutta Parigi è come un immenso teatro, i ricevimenti sono rari ma memorabili, come quello di Boni de Castellane per il compleanno della moglie Anna Gould o come la festa da Mille e una notte di Paul Poiret, che aveva liberato le donne dal busto e le voleva fluide in abiti di chiffon, di lane lievi, scollate e con imponenti cappelli. La soluzione del problema la trovò l'elegantissima del momento, la contessa Greffulhe, con un'esposizione a scopo benefico di piccoli inediti copricapo e acconciature. Quei diademi con una piuma nera, le calotte leziose, sono alla mostra accanto alle reticelle d'oro, ai diademi ricamati del 1926, quando ormai le donne preferivano a una sera di gala il dancing, chiuse in abiti diritti, sciolti, corti come i loro capelli, ma ricoperti di Strass, di perle o tubolari, spogli ma da arricchire con i nuovi bijoux Déco, secondo il gusto personale nella scia di Chanel, Lanvin o Suzanne Talbot. Raramente tuttavia verrà superata l'eleganza degli Anni Trenta, che fa le sue prove migliori nell'abito da mezza sera, quando la moda del cocktail non lasciava tempo di cambiarsi per il pranzo, il cabaret o il teatro e la donna adotterà, reinventandoli, lo smoking, il frac maschili, le falde a godè, a punta, corte o lunghissime sulla gonna lunga e diritta. Dopo, né gli abiti del divampante new look, dei recuperi della tradizione negli Anni 50, né i tempi definiti alla mostra come quelli di ogni audacia, fra il '60 ed il '75, appena vissuti, o ricchissimi revival tra folk e costume, da Saint Laurent a Lacroix, procurano l'emozione dello spoglio, lungo, accollato abito nero, che Balmain disegnò per Juliette Greco, quando cantava nel 1950 alla Rose rouge in Saint-Germain-des-Près. Lucia Sollazzo iù di tredo di actano dai milioni di oeti d'Arlista nei eraviglia. 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Abitcodice rigre l'etichegrandiosoetà, che acon décollpagnata a Un abito di Nina Ricci creato per la collezione autunno-inverno 1987-1988. Nella foto piccola, qui a fianco, un modello del 1925 disegnato da Agnès

Luoghi citati: Marrakesh, Nancy, New York, Parigi, Svezia, Zurigo