Quando lo dissi a Calvino di Lorenzo Mondo

Quando lo dissi a Calvino Quando lo dissi a Calvino Così fu trovato trentanni fa il manoscritto ERA forse il 1962, in ogni caso non dopo l'agosto di quell'anno, quando Maria Sini lasciò la casa di via Lamarmora 35 in cui era vissuto anche Pavese. La sorella dello scrittore mi era stata prodiga di aiuto quando stavo preparando la mia tesi di laurea e anche dopo non venne meno la sua amabilità nei miei confronti. Sapendo che desideravo proseguire gli studi su Pavese, mi pose a disposizione gli scartafacci una specie di zibaldone - in cui il fratello era solito conservare negli anni giovanili minute di lettere, abbozzi di poesie e racconti, appunti di lettura, pensieri sparsi. Ricordo il giorno in cui Italo Calvino, che non mi conosceva personalmente, piombò a casa mia, nella barriera torinese. Aveva saputo che mi occupavo di Pavese sulla base di un abbondante materiale inedito. Trassi gli scartafacci da uno scatolone sotto la culla dove dormiva placidamente mia figlia. Glieli feci esaminare, lo interessai immediatamente all'idea di pubblicare un epistolario: di quanti scrittori italiani esistevano tante lettere, a partire dall'età di sedici anni? Questo, per dire che più volte mi trovai a fare la spola dalla casa di Pavese alla Einaudi con il frutto di ulteriori ricerche. Giulio Einaudi, allora, passava nei corridoi della casa editrice gettando occhiate e motteggi attraverso le porte degli uffici. Calvino, che si sarebbe impegnato con passione nel lavoro dell'epistolario, era paziente e cameratesco pur nei suoi modi impacciati e bruschi. Ricordo di Maria Sini la serenità straordinaria che nasceva da una disillusione ormai tutta scontata. Custodiva la memoria di Cesare con amorevolezza ma senza bigotteria. Era afflitta da una leggera sordità, sospetto che ne approfittasse talora per isolarsi e proteggersi contro gli importuni. Mi fece vedere il primo giorno la stanza di Pavese. Sulla parete lunga alla sinistra dell'ingresso c'erano, intatti, i suoi libri: i prediletti autori americani, gli etnologi, i classici dell'Universale Sonzogno sottolineati e annotati. Gli scaffali di legno proseguivano e facevano gomito sulla parete di fondo, subito fermati dal vano di una finestra. Sulla parete di destra erano appoggiati un canterano e un massiccio pianoforte con i tasti nicotinizzati dal tempo (ma questo apparteneva alla sorella ed era stato trasportato nella stanza dopo la morte di Cesare). Su quel pianoforte Pavese aveva dato scherzosamente prova della sua perdurante inconciliabilità con la musica. Poi c'erano due poltroncine e, Pavese vivo, un lungo tavolo al centro, sempre ingombro di fogli e di libri. Infine, contro la parete corta, all'ingresso, il letto. Foderato, come le poltroncine, con una stoffa di colore scuro, la stessa delle tende alla finestra: una fantasia di giallo, verde e viola. Pavese, scandalizzando la sorella, era solito pulirvi di nascosto la pipa. Un giorno, al ritorno da una di quelle spedizioni, trovai fra altre cose un bloc-notes a carta quadrettata, scritto per lo più a matita, in cui compariva la grafia inconfondibile dello scrittore. Una rapida scorsa mi lasciò turbato. Anni prima, discutendo di Pavese ai seminari di Giovanni Getto all'università di Torino, avevo fatto in tempo a scontrarmi vivacemente con qualche superstite zelatore di Pavese engagé. Acqua passata. Ma quello scritto andava al di là di ogni apettativa, colpiva come un pugno nello stomaco. Andai da Calvino che stava dietro la sua scrivania. Mentre sfogliava il taccuino, la sua faccia mi pareva ancora più pallida e magra. Disse che non ne sapeva niente e stette a guardarmi in silenzio meditabondo. Pensai, a grande velocità, che per il momento era opportuno mantenere il riserbo sul testo. Al di là delle probabili e legittime opposizioni della famiglia, c'era da esporsi alle accuse e al rischio di specu¬ lazioni volgari. Non lo meritava la famiglia, non lo meritava Pavese. «Tienilo tu - gli dissi - mettilo in cassaforte. Quando varrà la pena di pubblicarlo, ricordati di me». Mi disse di farne prima delle fotocopie che avrei tenuto per me e che mi sarebbero servite per quando avessi voluto lavorarci. Sono le fotocopie che conservo, per quanto pallide e con qualche riga smangiata sul bordo superiore delle pagine. Lo strumento di cui mi servii doveva essere piuttosto rudimentale. Dopo l'impresa dell'epistolario (ne uscirono due volumi con lettere dal 1924 al 1950) vidi solo fuggevolmente Calvino che poi si trasferì a Roma. E quelle poche volte, nessuno di noi toccò l'argomento. Avevo del resto una mia idea. Pensavo di scrivere una vita di Pavese nella quale avrebbe trovato il giusto posto, contestualizzato, il capitolo sconosciuto della biografia pavesiana. Ma il lavoro giornalistico sempre più intenso, la sopravvenuta disaffezione per l'argomento, la pigrizia, mi fecero accantonare il progetto e dimenticare le carte. Ne accennai appena, negli anni, a qualche amico. Chissà dov'era mai finito l'originale. Dimenticato o perduto nelle vicissitudini della casa editrice, nel viavai di laureandi che si sono chinati sui fogli pavesiani? Ad ogni importante occasione (anniversario o congresso pavesiano) temevo di veder spuntare l'oggetto misterioso, ero quasi rassegnato a vedermi spossessato del mio piccolo segreto. Anche perché non riuscii più a rintracciare per parecchio tempo le mie fotocopie. Poi, dopo la morte di Calvino, mettendo ordine dopo un trasloco, le vidi riaffiorare. Allora mi sentii all'improvviso sbloccato. Purché i parenti di Pavese fossero d'accordo. Ma le nipoti Cesarina e Maria Luisa accondiscesero, con tratto signorile, con civile liberalità. E' così che, a braci spente, esce questo taccuino di Pavese. A disposizione dei lettori, degli studiosi. Lorenzo Mondo Italo Calvino

Luoghi citati: Roma, Torino