Mariangela Melato di Donata Gianeri

Mariangela Melato Mariangela Melato L'affascinante Anna dei miracoli «Le parole vogliono dire qualcosa... hanno un significato. Se abbiamo il loro significato, arriviamo a conoscere le cose che ci circondano, chiamandole col loro nome: le facciamo uscire dal rifugio dove si sono rintanate e le facciamo vivere...». Mortificata nel vestito di cotonina a fiorellini, da istitutrice povera, la testa a riccioli fitti e scuri, Mariangela Melato sola sulla scena, in piedi, pronuncia questa sorta di prologo-monologo con la sua voce grande, profonda, un po' roca. Anna dei Miracoli di William Gibson, regia di Giancarlo Sepe, apre la stagione dello Stabile mercoledì al Teatro Alfieri, dopo la lunga tournée a successo, dello scorso anno. Un successo che in qualche modo pesa. In qualche modo condiziona. Certo, non facilita. «Perché temi di deludere le aspettative del pubblico e perché temi che l'incontro miracoloso della stagione precedente non si ripeta. Confesso di aver provato molta più paura la sera della prima quest'anno che non l'anno scorso, al debutto». — Riprendere uno spettacolo a distanza di un anno, significa anche rivederlo, svilupparlo, affrontarlo, magari, in modo diverso? «Direi che proprio questo è il punto più impegnativo, perché devi cercare non solo di mantenerti all'altezza, ma di migliorare il personaggio, avendo come punto di riferimento quello che hai fatto prima. E il lavoro che mi sono imposta è in un certo senso agli antipodi di quanto si fa di solito perché in genere gli attori tendono ad arricchire il personaggio che interpretano, mentre io ho cercato di togliere il più possibile, di renderlo scarno, impoverirlo al massimo». — Comunque, il successo continua. Secondo lei, perché uno spettacolo di questo tipo piace tanto al pubblico? «Al pubblico piace perché è bello». — Non tutti gli spettacoli che ci sembrano belli piacciono al pubblico. E viceversa. «Ha ragione. Io credo comunque che in questo spettacolo ci siano diverse componenti che coingolvono il pubblico, benché Sepe abbia cercato vistosamente di spogliarlo il più possibile, togliendo tutto ciò che poteva essere accattivante, i dialoghi di convenienza, ì sentimentali¬ smi facili, le eventuali cadute in un didascalismo perbenista. Vede, io sono convinta che sia uno spettacolo utile: perché all'insaputa di Giancarlo e mia, si è fatto un discorso sull'educazione, sulla dirittura morale, sull'importanza fondamentale di aver qualcosa in cui credere. Non a caso lo spettacolo piace ai giovani: i giovani inconsciamente, ho scoperto, sentono il desiderio di un rapporto di durezza, ovviamente esercitato con amore, poiché la permissività a oltranza li ha resi insicuri, togliendogli ogni possibile punto di riferimento, ogni tipo di indirizzo nella vita e portandoli, in un certo senso, allo sbando. E qui la grandezza del personaggio consiste proprio nell'implacabile volontà di questa donnetta, umile, grigia, incolta, che ha capito una grande verità: combattere per una persona, usando i mezzi forti per piegarla alla comprensione, significa, soprattutto, aiutarla. Non è quindi la storia di un miracolo, come dice il titolo, ma di una durissima educazione alla vita. Ed è anche a storia di un grande amore». — E lei continua a uscire da queste colluttazioni sceniche ridotta al lumicino, come le accadeva in passato o, nel frattempo, si è fatta le ossa? «Vuol dire, mi son rotta le ossa: guardi, nella vita sono fragile come una candela. E' la carica nervosa che mi riempie di energia trasformandomi, sulla scena, in una lottatrice. Aggiunga che questo spettacolo, chissà perché, è legato ad una sfortuna fisica tremenda: l'anno scorso c'è stato il colpo della strega che mi ha obbligata, per mesi, a un busto rigido, con le stecche. Quest'anno ho iniziato le riprese con due costole rotte. Ho un medico che mi segue in continuazione e ogni volta che mi vede uscire di scena, viva, mi guarda quasi fossi una miracolata. Ma io credo che lo spettacolo acquisti un valore proprio per questo scontro fisico totale che io soffro sulla mia pelle». — Si ha l'impressione che lei scelga i suoi personaggi più come donna che come attrice. E' veramente così? «Non lo so, anche perché, tutto sommato, mi è difficile fare una differenziazione netta fra la donna e l'attrice: diciamo che scelgo una cosa perché mi piace, non certo pensando agli incassi. Come attrice non sono e non voglio essere schiava del successo. Preferisco rischiare, ma anche gli sbagli servono a mantenere la stima che ho di me stessa». Donata Gianeri Mariangela Melato. «Non sono e non voglio essere schiava del successo»

Persone citate: Giancarlo Sepe, Mariangela Melato, Sepe, William Gibson