Nijinsky danzava nell'aria

Nijinsky danzava nell'aria Il mondo celebra i cent'anni d'un genio della danza Nijinsky danzava nell'aria «Così io muoio se non sono amato» ostre, convegni, spettacoli celebrano Vaslav Nijinsky, il genio folle dei Ballets Russes, colui che con Djagilev ha segnato l'avventura della danza in questo secolo, essendone protagonista e vittima al tempo stesso. Creatura inafferrabile e ambigua, Nijinsky ancor oggi spiazza chiunque tenti di penetrare a fondo la sua personalità, e pone imbarazzi persino al momento di ricordare l'anniversario della sua nascita. Il 1989, si è deciso, è l'anno del centenario, ma esistono forti dubbi al riguardo: un documento trovato a Varsavia (Vaslav nacque a Kiev da genitori polacchi) cita il febbraio 1989, la sorella Bronislava sposta la data a marzo, Nijinsky stesso, al momento del matrimonio con Romola de Pulsky dichiarò d'essere nato nel 1990, mentre il più attendibile biografo suo e di Djagilev, Richard Buckley, risale addirittura al marzo 1888, contraddetto dal monumentale DEUMM dell'Utet, che ci riporta all'89. Ma non è poi così importante una data di nascita, quando si ha a che fare con una vicenda umana e artistica tanto pregnante, tale da colpire ancor oggi al cuore non solo l'appassionato di danza, il critico, lo storico, ma anche chi s'interessi semplicemente all'avventura di un uomo. Che ebbe in dote — direttamente da Dio, direbbe Vaslav — un talento straordinario, una sensibilità eccessiva e sfogata, una curiosità indomita e pericolosa. Abbinate a un carattere introverso e cupo, a una sessualità ardente e irrisolta per tutta la vita, alla prepotente vocazione al contrasto: vette di estasi e abissi di angoscia, lucidissime intuizioni e vaneggiamenti siderali. Chi fu Nijinsky? Un ballerino dalle doti superiori, innanzitutto: fascino scenico, personalità interpretativa, una élevation leggendaria e forse ineguagliata, unita al ballen, che è la facoltà di riuscire a restar sospesi in aria per qualche frazione di secondo dopo aver spiccato un balzo, facoltà che pare sia derivata a Nijinsky dalla frequentazione di magici riti orientali. Con Anna Pavlova e Tamara Karsavina, Vaslav fu la punta di diamante dei Ballets Russes di Djagilev, che debuttarono a Parigi nel 1909, fu l'animale esotico, bellissimo, prodigioso che il pubblico correva ad ammirare nel Pavillon d'Armide, nella Shéhérazade, nello Spectre de la rose, sino a Petrushka, il balletto che la critica d'oggi assume a compendio e simbolo dell'esistenza di Vaslav: quella marionetta che disperatamente vuole vivere e amare ma è nelle mani impietose di Ciarlatano che l'espone alla festa di Carnevale a Pietroburgo, ci ricorda il rapporto d'amore e odio che indissolubilmente legò Nijinsky al suo mèntore e padrone, Serge Diagilev, del quale ricorre pure il sessantesimo anniversario della morte, avvenuta a Venezia nell'agosto del '29. Anche qui, arte e vita si confondono: i due furono amanti, e insieme scrissero capitoli fondamentali nella rivoluzione artistica introdotta dai Ballets Russes nel languente mondo del balletto applicando i principi d'unità delle arti teorizzati da Nikhail Fokin (danza, musica e pittura sullo stesso piano, con un felice interscambio che visse nel nome di Stravinskij, Picasso, Benois, Debussy, Satie, Milhaud, e Cocteau). Sconvolsero anche e soprattutto i canoni estetici sui quali la rappresentazione teatrale e coreografica si basava sino ad allora. Basti pensare a tre balletti (L'aprés midi d'un faune, Jeux e La sacre du printemps) la cui realizzazione fu affidata da Djagilev a Nijinsky e che non a caso furono lo Scandalo per eccellenza, fra il 1912 e il 1913. Vaslav morì folle nel 1950 e si dice che i primi germi della pazzia siano apparsi nel '13, dopo il matrimonio-provocazione con la de Pulsky e la pronta lettera di licenziamento inviata dal gelosissimo Diagilev. Ma forse la follia è stata da sempre la compagna della sua esistenza: e se è vero che i matti sono coloro che vedono più lontano degli altri, nei suoi balletti Vaslav fu meravigliosamente pazzo, perché offrì al pubblico — che non capì — intuizioni ardite e destabilizzanti: il delirio onanistico di un Fauno con nelle narici il profumo di una ninfa; l'amore a tre — suggerito soltanto, e perciò ancor più provocante — durante una indolente partita di tennis in Jeux; la disarticolazione della mente, ancor prima che del corpo, nel rito sacrificale del Sacre, con un ribollire di terrori ancestrali, di fobia tra i sessi, di movimento oltre e contro la musica, furono macigni in uno stagno. Persino Stravinskij, autore del Sacre, ne fu indignato: «L'impressione generale che tuttora conservo — scrive in Cronache della vita — è l'incoscienza con cui la coreografia venne composta da Nijinsky, che non seppe rendere l'essenza della partitura in modo intelleggibile, anzi la complicò». Si sarebbe poi ricreduto, Stravinskij, e oggi il Sacre (che il Joffrey Ballet ci ha reso esemplarmente ricostruito lo scorso anno, a Spoleto) viene additato come capolavoro assoluto. Ma i fischi, la frutta tirata in scena, i booh che costellarono la «prima» furono per Vaslav, l'«idiota di genio», come fu definito, la conferma: era un diverso, in corsa solitaria in un mondo ostile. Il 1913 segna tra l'altro il declino artistico di Vaslav (avrebbe composto ancora Till Eulenspiegel a New York, nel '17, esibendosi sempre più raramente, sino agli anni della quieta follia in Svizzera e poi in Inghilterra) e una svolta critica nelle sue condizioni mentali. Qui è il privato che subentra, fortemente. Abbandonato giovanissimo dal padre, favorito di un principe rus- so che lo presentò a Djagilev il quale se ne innamorò perdutamente e ne fece il suo schiavo, curioso delle donne (a Parigi, all'insaputa dell'amante, cercava cocottes a ogni angolo) ma atterrito da alcuni aspetti del rapporto sessuale, «alla ricerca perenne di un padre», ricorda la sorella Bronislava, Vaslav fu per tutta la vita una creatura in cerca e in fuga. Sposò Romola per riscattarsi da Djagilev e ne ebbe una figlia, Kyra; fu punito dal suo I Ciarlatano, che non volle più vej derlo; cercò invano un'autono! mia artistica e umana; lasciò nel : suo Diario (ampiamente censu; rato dalla moglie alla prima I uscita) frammenti toccanti di un Io-diviso alla centesima potenza, di una mente e un cuore assetati d'identità e calore: «Il mio corpo non è malato, è malata la mia anima. Voglio danzare, disegnare, suonare, scrivere versi. Voglio amare tutti. Io sono colui che muore se non è amato». Vittoria Doglio Una delle ultime immagini di Vaslav Nijinsky Parigi, 1910. Nijinsky in «Giselle». Con Djagilev visse una stagione straordinaria tra Picasso, Debussy e Stravinskij