Così la borsa di Calvi finì in Vaticano di Giovanni Bianconi

Così la borsa di Calvi fini in Vaticano Il finanziere deve rimanere in carcere perché gli inquirenti temono che «inquini le prove» Così la borsa di Calvi fini in Vaticano Telefonata all'amico di Carboni ha tradito mons. Hnilica ROMA. I documenti «di rilevante interesse» contenuti nella borsa di Roberto Calvi sono finiti in Vaticano, grazie alla compravendita organizzata dal vescovo cecoslovacco Pavel Hnilica. I giudici dicono di averne la prova: una telefonata del prelato con Giulio Lena, il falsario che finanziò il recupero della borsa tramite il faccendiere Flavio Carboni. Nel colloquio, registrato dagli uomini della Criminalpol, il falsario si lamenta con il monsignore per il mancato pagamento dei documenti. Hnilica quasi si scusa con Lena, fa capire che l'operazione è andata in porto e che i ritardi nel pagamento non dipendono da lui, ma da coloro per conto dei quali agisce. Secondo gli inquirenti, il Vaticano. Dalle indagini sono saltati fuori gli assegni a vuoto per un miliardo e 200 milioni firmati da Hnilica, le lettere di protesta inviate da Lena al cardinale Ca- saroli, un'altra lettera di Carboni al monsignore in cui sono chiari i riferimenti all'affare. Anche i giudici del tribunale della libertà, che tre giorni fa hanno lasciato in carcere Carboni per il solo reato di truffa aggravata, sembrano convinti che Hnilica ottenne i documenti di Calvi. Nell'ordinanza parlano infatti di «pressante e preoccupato interesse» e di «successivo conseguimento» di quelle carte «o di fotocopie di esse», da parte del prelato. In parte, dunque, il monsignore ha confessato, anche se dice di non aver avuto nessun ordine dal Vaticano e nega di aver mai saputo che i documenti provenissero dalla borsa dell'ex presidente dell'Ambrosiano. Ma i magistrati a questa versione del monsignore credono poco. E' ancora il tribunale della libertà a chiamarlo in causa. Una volta quando spiega che Hnilica, «palesemente mentendo», nega di aver sottoscritto un atto preliminare di vendita tra lui e Lena che invece porta la sua firma. E un'altra sulla storia degli assegni a vuoto che, secondo il prelato, sarebbero stati consegnati in bianco a Carboni. Un avvocato del faccendiere sardo, Luigi D'Agostino, afferma che «Hnilica consegnò a Carboni un primo assegno da 600 milioni tratto sullo Ior, poi ceduto da Carboni a Lena, e che Hnilica consegnò a lui stesso (D'Agostino) un altro assegno in bianco che egli trasmise al Lena, il quale in sua presenza lo riempì con l'importo di 600 milioni». Almeno uno dei due titoli di credito, quindi, fu riempito dal vescovo. Per spiegare alcuni finanziamenti a Carboni, Lena disse che i soldi dovevano servire a recuperare la borsa di Calvi, a cui il Vaticano era molto interessato. Scrivono i giudici del tribunale della libertà: «Il Lena assume che i due assegni (quelli di mons. Hnilica da 600 milioni l'uno, ndr) gli furono consegnati da Carboni a titolo di rimborso dei finanziamenti da lui erogati nel quadro delle attività di ricerca della borsa/documenti del Calvi, per le quali il Vaticano, secondo il Carboni, aveva stanziato 41 miliardi». L'ex braccio destro del faccendiere sardo, Emilio Pellicani, parlando degli assegni, dice però che «Carboni negò con una risata l'assunto del Lena che si riferissero al finanziamento dell'operazione borsa/Calvi». Negati gli arresti domiciliari a Carboni perché — scrivono i giudici — «questa vicenda prende avvio con i primi contatti del Carboni con Hnilica mentre il primo era detenuto agli arresti domiciliari nella sua villa dell'Eur». Giovanni Bianconi

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