Il Cremlino onora i debiti del nemico di Lenin di Domenico Quirico

Il Cremlino onora i debiti del nemico di Lenin Una legge americana vieta di concedere finanziamenti a Paesi che hanno pendenze finanziarie con il governo Il Cremlino onora i debiti del nemico di Lenin Mosca rifonderà 200 miliardi prestati dagli Usa al «traditore» Kerenski Per i banchieri era proprio un credito «ad alto rischio», azzardato più di un moderno finanziamento a Paesi dalle mani bucate come Bolivia o Etiopia. I bilanci del debitore, la Russia che da poco aveva tolto dalle bandiere le aquile degli zar, erano tali da scoraggiare qualsiasi prospettiva di investimento: un'economia feudale devastata dal caos della guerra; un esercito in rotta, un'amministrazione dove nessuno obbediva più a nessuno. Ma c'erano pesanti ragioni politiche per convincere gli Stati Uniti a prestare, nonostante tutto, 188 milioni di dollari: 200 miliardi di lire erano, tutto sommato, pochi per tenere impegnate le leggendarie divisioni di Guglielmo II sul fronte orientale. Sono passati 72 anni, a sorpresa la Russia di Gorbaciov onorerà quel vecchio debito sottoscritto da un uomo che nei libri di storia studiati dai ragaz¬ zi sovietici ha ancora la pesante qualifica di «rinnegato» e «compagno di strada della borghesia», citazione da Lenin. La decisione di Mosca non è frutto di glasnost storiografica (anche se recentemente qualche storico ha fatto i primi timidi passi sulla lunga strada della revisione della figura di Kerenski). In realtà chiudere le vecchie pendenze è l'unico modo per far uscire la Banca estera sovietica e la sua filiale di New York dal limbo. Una legge del 1934 blocca le concessioni di credito a Paesi debitori del governo americano che non siano membri del Fondo monetario e della Banca mondiale. Un guaio per un'economia come quella sovietica, costretta dopo anni di autarchia a misurarsi da posizioni di debolezza con il mercato mondiale. E poi molta acqua è passata sotto i ponti della Neva da quando Lenin proclamava che la nuova Russia proletaria disconosceva i debiti dello zarismo e dei suoi lacchè, e che il sostegno finanziario dei Paesi capitalisti «è come la corda che sostiene l'impiccato». E si può anche dimenticare che quei duecento miliardi, forse, sono serviti a comprare fucili e cannoni che hanno sparato contro le guardie rosse di Trotzkij. Una piccola vendetta postuma per Alessandro Kerenski, anima del primo e ultimo governo «democratico» della Russia, per cui vale sempre il giudizio di Churchill : «E' stato l'uomo che la storia ha trattato più duramente di ogni altro». Ma cercare di guidare un Paese sulla soglia del baratro avendo avversari della tempra di Lenin, Trotzkij, Kamenev non era cosa facile. Nei primi mesi del 1917 l'esercito russo era ormai un'armata fantasma: vecchi generali zaristi a cui nessuno obbediva, soldati che avevano scoperto l'assemblearismo permanente e conoscevano un unico slogan: «Se si può ottenere soltanto una pace infame, dateci questo tipo di pace». Kerenski e il suo governo provvisorio restavano aggrappati all'alleanza con le potenze occidentali come a una zattera della Medusa, l'ultima possibilità di salvare una democrazia impotente dall'assalto bolscevico. Ma a Londra e Parigi nessuno si fidava più di lui: i crediti indispensabili per sfamare le truppe erano concessi con una scandenza massima di tre mesi e a interessi più alti che per gli altri alleati. L'unico a concedere fiducia era l'ultimo arrivato sulla scena del massacro europeo: il presidente americano Wilson, un idealista dietro cui spuntavano le ragioni meno disinteressate dei banchieri di Wall Street. A Wilson non piaceva la Russia zarista, un'autocrazia asiatica troppo simile agli imperi centrali contro cui combatteva. Kerenski era più presentabile nel Paese che si considerava il baluardo della democrazia: così quella manciata di miliardi finì negli esausti forzieri di Palazzo Marinski a Leningrado, sede del governo provvisorio. Non fu l'ultimo favore degli Usa a Kerenski: il 25 ottobre del 1917 uno strano corteo uscì dal Palazzo d'Inverno; davanti una gigantesca Ford con bandiera a stelle e strisce dove era seduto David Francis, l'ambasciatore americano notissimo in città per i suoi giganteschi sigari e per il servo negro. La seguiva una Lancia davanti a cui gli junker di guardia presentarono le armi. Era l'auto dell'ex capo del governo in fuga. Duecento miliardi non erano bastati a fermare le armate di Lenin. Domenico Quirico