Il palcoscenico delle stelle

Il palcoscenico delle stelle Il palcoscenico delle stelle Van Basten, amaro addio ma si reincarna Maradona La rissa di Cantona e le eterne magìe di nonno Francescoli L'anno del dramma di Andrea Fortunato, Edoardo Bortolotti e Vincenzo Spagnolo. Ma anche l'anno di Weah Pallone d'Oro, dell'Ajax campione di tutto, dell'Uruguay campione del Sud America e delle favole di Penev a Madrid e Vlaovic a Padova: operati d'urgenza e restituiti al grande calcio. L'anno di Cantona travestito da hooligan. Di Maradona che torna. Di Rijkaard e Van Basten che si ritirano. Di Gunnar Nordahl, il mitico pompierone, Dirceu, il più simpatico e versatile degli zingari, e Kovacs, il demiurgo del calcio totale, che ci lasciano. L'Uruguay è un francobollo e il Brasile un album intero, ma nel calcio può anche succedere quello che è successo il 23 luglio a Montevideo. Il francobollo si mangia l'album, l'Uruguay rimonta il Brasile e lo brucia ai rigori, soffiandogli la coppa America. Il simbolo è una mezz'ala di 34 anni che chiamano Principe, Enzo Francescoli. Più lui che Tulio, brasiliano, 26 anni, campione con il Botafogo e miglior realizzatore EuropaSud America ( 10 gol): quello segnato all'Argentina, dopo un plateale stop di braccio, manda in bestia il et Passarella, eliminato e, per questo, scorticato da una critica che già non gli aveva perdonato l'infelice uscita sui gay («Con me in Nazionale, mai»). Se a Buenos Aires si grida al furto, a Londra, in gennaio, ci si scandalizza per l'aggressione che Eric Cantona, espulso, «dedica» a un tifoso del Crystal Palace, che gli aveva dato del fottutissimo francese. A un passo dal carcere, sospeso e poi squalificato, Cantona rientrerà, alla testa del Manchester United, il primo ottobre contro il Liverpool. Ventiquattr'ore dopo, la reincarnazione di Diego Maradona a Seul, in Corea-Boca Juniors. Non giocava, Diego, da Argentina-Nigeria, Mondiali americani, Boston, 25 giugno 1994. Ancora droga, ancora quindici mesi di stop. Triste, solitario y final. un'ovazione eccezionale, appassionata, libera dai vincoli tribali del tifo. Entrato in campo a rimorchio delle squadre, il cigno di Utrecht zoppica e saluta, saluta e zoppica. Cerca di correre da un settore all'altro del pubblico. Sbanda. Si ferma. Corricchia. Cammina. Arranca. Gli occhi umidi, il braccìno tremulo, vinto, a nemmeno trentun anni, dalle insane bizze di una minuscola cartilagine della caviglia destra. Il suo calcio era fantasia, eleganza, precisione. Vero, Weah è una pantera che, a tratti, ne riproduce l'abbagliante e devastante raggio laser; l'Arrigo scommette su Alex Del Piero; i pupi dell'Ajax, la scuola di Marco, promettono bene. Ma il rischio che il calcio del Duemila sia sempre meno dei Van Basten, e sempre più degli oscuri manipolatori del pressing, esiste: e come. Il panorama non induce all'ottimismo. Tutto scorre, tutto passa. Ma certi vuoti, certe ferite, restano, [ro. be.] Il 24 maggio, l'Ajax regola il Milan per 1-0 al Prater di Vienna e si aggiudica la quarta Coppa dei Campioni della storia, la prima del dopo Cruyff. Il gol lo firma Kluivert, prodotto della casa, l'assist è di Frank Rijkaard, atleta immenso, giocatore splendido. Di lì a poco abbandonerà il calcio, per occuparsi di biancheria intima, seguito, il 18 agosto, da Marco Van Basten. E dal momento che Ruud Gullit ha lasciato l'Italia per il londinese Chelsea, ecco che, all'improvviso, il mitico trio olandese che fece del Milan uno squadrone irripetibile scompare dai nostri radar. Se l'addio di Rijkaard era programmato, e quello di Gullit è soltanto un trasferirsi lontano dagli occhi ma non dal cuore, la resa di Van Basten è straziante. La sera di Milan-Juventus (trofeo Berlusconi) i settantamila di San Siro si alzano in piedi, commossi, riconoscenti, persino educati, e gli tributano