I «lupi mannari» della feroce transizione di Kiev

I «lupi mannari» della feroce transizione di Kiev L'ECATOMBE DEJ POTENTI RICORDA IL 1991 E LA FINE DEL PCUS A MOSCA I «lupi mannari» della feroce transizione di Kiev Il presidente Yushenko ha rotto il patto con i vecchi servizi segreti: è la sua rivoluzione retroscena i;;»l;:5h;«; UNA dacia nei pressi di Kiev, un uomo potente che giace esangue sul pavimento, accanto un fucile o una pistola. Attorno si affaccendano magistrati che parlano di suicidio, ma scrollano le spalle lasciando capire che forse non è così semplice come appare. La morte misteriosa di Jurij Kravcenko, ex ministro dell'Interno ucraino, sembra un giallo jpà letto, un «deja vu» ricorrente a Kiev nelle prime settimane della «rivoluzione arancione». Il 27 dicembre la stessa scena si era ripetura, precisa fin nei particolari, con il ministro dei Trasporti Gheorghij Kirpa, morto per «ferite di arma da fuoco» inferte da una mano che non è chiaro se fosse stata la sua. E pochi giorni prima un altro cadavere eccellente, il banchiere Jurij liakh, trovato in casa con la gola tagliata. Alti funzionari che si ammazzano mentre in piazza esplode l'eufo¬ ria della rivolta di Yushenko. Ma questa catena di morte è qualcosa di più di un'epidemia di depressione suicida tra dignitari dell'ex regime. Perché i tre morti appartengono ai livelli più elevati del clan dell'ex presidente Leonid Kuchma. Kirpa era uno degli organizzatori e finanziatori della campagna elettorale di Viktor Janukovic, scelto come delfino per una successione indolore da Kuchma e dal Cremlino. Jury Liakh era in affari con la famiglia di Kuchma. E Kravcenko era l'uomo che conosceva il segreto più atroce del regime: sapeva chi aveva tagliato la testa al giornalista Gheorghij Gongadze. Coincidenze che difficilmente sono casuali e la vox populi di Kiev non esita ad accomunare i tre morti illustri nella categoria di «quelli che sapevano troppo». L'ecatombe dei potenti ucraini ricorda il settembre 1991, quando dopo il fallimento del golpe comunista i funzionari del Pcus cadevano a grappoli dalle finestre e per strana coincidenza queste crisi di vertigini assalivano solo gli addetti alle finanze del partito. E l'unico suicida tra i golpisti fu guarda caso il ministro dell'Interno Boris Pugo, che si sparò un colpo alla tempia. «Deja vu» da fine regime appunto, quando gli scheletri saltano fuori dall'armadio per marciare in piazza. E qualcuno cerca di fermarli. Quattro giorni fa è scampato a un attentato un tale Nesterov, membro di quella «banda di lupi mannari» composta da poliziotti che si specializzava in sequestri (gli ostaggi venivano uccisi indipendentemente dalla consegna del riscatto). Erano stati i «lupi mannari» a rapire e uccidere Gongadze. E il testimone chiave della vicenda, il capo dei «lupi» (e ufficiale del ministero dell'Interno) Igor Gonciarov è morto in carcere lasciando un appunto postumo più che esplicito: «I magistrati mi chiedono di dire tutto su Gongadze e mostrare le carte e io verrò eliminato». Un giro di complicità corrotta e servizi deviati che emerge dall'autopsia di un autoritarismo. In Ucraina sembra svolgersi in questi giorni un gioco dentro un gioco dentro un altro gioco, dove alcuni vogliono parlare e altri vogliono far tacere, e non c'è tempo per fare proposte che non si possono rifiutare e si passa direttamente alla pistola. Di questa partita massacrante forse fa parte anche un'altra morte strana avvenuta a migliaia di chilometri, a Tbilissi dove il premier Zurab Zhvania è rimasto soffocato da una stufetta difettosa. Giallo che viene letto in chiave di lotta politica intema, colorato anche di tinte scandalose dalla pre¬ sunta omossessualità della vittima. Ma il fratello di Zhvania, David, è uno degli artefici della rivolta di Yushenko e uomo connection con la «rivoluzione delle rose» che ha buttato giù Eduard Shevardnadze. Se non si fosse sparato Kravcenko tre ore dopo avrebbe dovuto venire interrogato: si è ucciso per evitare il carcere o è stato ucciso perché avrebbe parlato? La fine di Gonciariov e l'attentato a Nesterov avrebbero potuto spinge¬ re qualcuno a confessare in cambio di garanzie di sicurezza dal nuovo potere. Ma c'è un particolare inquietante: Kravcenko era guardato a vista e dunque i servizi avrebbero potuto impedhe il suo gesto. Non solo: il pedinamento era partito il 13 dicembre, cioè quando Yushenko non aveva ancora vinto. Quindi la polizia e i servizi, quegli «enti della forza» senza i quali non può avvenire un passaggio di potere nell'ex Urss, avevano già cam- biato bandiera. La resa di Kuchma è avvenuta non solo sotto la pressione della piazza e dell'Occidente, ma anche con un patto di incolumità garantito da Yushenko e da apparati dei servizi passati con lui. Ma la mattanza dei boss del vecchio regime dimostra che Yushenko ha rotto questo patto. Forse non può dimenticare quella cucchiaiata di diossina che una mano dei servizi gli ha messo nella minestra nel bel mezzo della campagna elettorale. O forse ha garanzie esterne ben più forti (il teste chiave dell'affare Gongadze, l'ex ufficiale dei servizi Melnicenko, ha avuto asilo politico negli Usa dopo aver incastrato Kuchma nelle forniture segrete di armi a Saddam). Resta il fatto che la «rivoluzione arancione» non è il sohto passaggio di potere consensuale tra due tronconi di elite postcomunista. Sembra ogni giorno di più una rivoluzione vera dove il vincitore si prende tutto. Un monito a tutti i potenti che ancora siedono più o meno saldi sui loro troni postsovietici. Questa catena di morte è più di un'epidemia di depressione ed è chiaro a tutti che nel mirino c'è ormai l'ex leader Leonid Kuchma

Luoghi citati: Kiev, Mosca, Ucraina, Urss, Usa