GUERRE lo le ho viste sono tutte inutili di Igor Man

GUERRE lo le ho viste sono tutte inutili GUERRE lo le ho viste sono tutte inutili analisi Igor Man «E' un atto di {perca» - «Guerra ai terroristi e agli Stati che li ospitano» - «Risposta politica ma anche militare» - guerra guerra guerra: i giornali gridano la fatale parola come comparse di un'opera lirica: «Partiam-partiam-partiam». E tuttavia sono titoli di rigore poiché di altro non si parla, nel mondo, offeso dall'orrore terroristico che ha sventrato l'invulnerabUità degli Stati Uniti d'America. Non è improbabile, tuttavia, che questi titoli che traducono un senso di ineluttabilità, frutto del duro discorso di Bush, vengano dettati da giornalisti che la guerra l'han vista solo al cinema. Un capo di Stato, preso in contropiede da una edizione aggiornata di Pearl Harbor, che altro può fare se non dire al suo popolo quel che il popolo si aspetta che dica dopo l'immenso dolore e l'umiliazione più grande sofferti, con stoicismo, va detto, da milioni di americani affezionati orgogliosamente al ruolo di fruitori dei beni del miglior mondo possibile: quello che coniuga il primato tecnologico-scientifico-finanziario-culturale con lo scudo stellare garante d'una difesa imperforabile. Garante d'una supremazia che sfonda il futuro proiettandosi nel terzo millennio alla conquista di una nuova frontiera senza indiani a tendere agguati. Ma a volte ritornano e ha scarsa importanza che «gli indiani» siano attentatori suicidi verosimilmente plagiati da uno Sceicco miliardario, ex playboy assiduo del Casino du Liban, famoso per il suo odio viscerale verso gli infedeli. Sempre indiani sono poiché sparano alle spalle dei pionieri, per di più umiliandoli. Chi, come il vecchio cronista, ha vissuto (per lavoro) negli Stati Uniti, viaggiandoli tutti, annodando amicizie grazie a un fratello che non nascondeva (è morto, Mirko, il decano dell'Ansa) la soddisfazione che Sasha, suo figlio, fosse stato marine; chi in grazia del suo mestiere ha avuto la buona sorte d'incontrare personaggi come JFK e suo fratello Bob, e inoltre Steinbeck, Sinatra (veniva a suonare il piano a casa di Renzo Nissim, in Central Park South 13), Faulkner, Scotty Reston eccetera, conserva dell'America un ricordo amoroso e prova rispetto per quella sobrietà fatta di alto pudore, così come di spavalderia sana e qualche volta di improvvisa violenza sfogata a cazzotti in un bar, che oggi, dopo la tragedia, gli americani tutu, in primo luogo gli abitanti della Grande Mela, manifestano. Ma veramente questi americani nel loro intimo rimasti pionieri, vogliono la guerra? Quando, invece, sino al martedì nero, almeno, non volevano neanche sentirne parlare al punto da forzare le distanze (psicologicamente) tra gli Stati Uniti prosperi e belli (quelli di Clinton sono stati otto anni di vacche grasse) e il Vicino Levante, i Balcani, la stessa Europa? E sono sicuri che una guerra, la guerra che sembrano pretendere da Bush, risolverà? Sono sicuri, credono veramente che una guerra «laggiù» punirà i malvagi, una volta per tutte, restituendo all'America tutte le sue care libertà, innanzitutto quella dalla paura? In forza dell'articolo 5 la Comunità Europea dovrà schierarsi con gli Usa per combattere quella che in buona sostanza viene prefigurata alla stregua di una nuova crociata. Contro i barbari terroristi suicidi. Per il vecchio cronista che nel suo organigramma astrale (quello degli oroscopi) ha una collezione di guerre, viste, raccontate, la guerra è inutile. Certo esistono guerra ineludibih, quella contro i nazifascisti, vinta dagli Alleati a caro prezzo, d'accordo, ma in generale la guerra non risolve nulla. E' lurida perché costringe il fratello a uccidere il fratello, perché annulla la pietà che ci portiamo dentro dalla nascita, e rende crudeli. Odio la guerra che Marinetti definiva la mestruazione dei popoli, perché, appunto stranisce l'uomo. Epperò il destino ha voluto che per il mio lavoro io dovessi inciampare continuamente nella guerra. Ho fatto, da cronista, tutte le guerre mediorientali, la incivile guerra civile del Libano, la guerra prolongata (dal Salvador alla Colombia), quella tra Iran e Irak. Ho fatto il Vietnam, come si dice. Una guerra inutile quant'altra mai (l'ambasciatore degli Usa ad Hanoi fu pilota e sganciò bombe sul Vietnam), una guerra che mi ha segnato profondamente. (Per me i giornalisti si dividono in due categorie: quelli che han fatto il Vietnam, e gli altri). Quando, cinquant'anni fa, ho cominciato a viaggiare mi sono prefisso di andare alla ricerca dell'uomo. Lo temevo, poi ho cominciato a conoscerlo, infine ho imparato ad amarlo. (Andando per guerre ho sempre sentito salire dallo sterminato popolo degli innocenti ima immensa domanda di pace). Gls Ho imparato a «cercare l'uomo» il 10 di giugno del 1940. Filavo, allora, con una ragazzina di nome Angelica e mi sentivo una sorta di Orlando. Concluso dal Duce il suo discorso con quella frase scandita senza convinzione: «La consegna è una sola (...) vincere e io vi dico che vinceremo», vidi Angelica scoppiare in lacrime. Affidatala a una sua piccola amica, corsi a casa. Mio padre aveva gli occhi cupi, il viso pallido bistrato da improvvise occhiaie di disperazione. «E' la fine», disse. «E' una pugnalata alla schiena», aggiunse: «Povera Francia e poveri noi». In quel preciso momento il ragazzo che ero divenne uomo. Le parole di mio padre furono la spinta ad entrare nella Resistenza. Così, senza scelte ideologiche, entrai nella resistenza militare, grazie al tenente A., un palermitano biondo bloccato a Roma. Poi, attraversando Giustizia e Libertà, approdai ai Vespri Siciliani, la formazione socialista guidata da Peppino Sapienza e da Maria Giudice (che dopo la Liberazione mi fece intervistare Angelica Balabanoff); distribuivo la stampa clandestina, aiutavo gli ebrei tunisini a varcare le linee «passandoli» ai partigiani adulti e coraggiosi di Sezze. Dopo la Liberazione entrai al Tempo ed ero, con Egisto Corradi, a Vienna quando i russi invasero l'Ungheria. Passavamo ogni mattina la frontiera, aNichelsdorf, parlavamo coi patrioti giorno dopo giorno sempre più in difficoltà, la sera rientravamo in Austria per dettare il servizio. Ma era scoppiata la Crisi di Suez (siamo nel novembre del 1956) e il direttore mi spedì al Cairo. Quell'aeroporto era chiuso, così raggiunsi in aereo Khartoum, presi il treno bianco del deserto e poi il battello che risaliva il Nilo e infine un vagone letto che mi portò al Cairo. Mezz'ora dopo partivo per il Delta, con i colleghi della stampa sovietica, canadese, cinese, francese e svizzera. Noleggiammo un motoscafo e dopo una notte di navigazione sotto le stelle arrivammo a Porto Said. I commandos del generale Stockwell avevano pagato un pesante prezzo in uomini, sicché quei soldatini erano nervosi. Mentre allungavamo fuoribordo il «mezzo marinaio» al quale avevamo legato una camicia bianca, quelli ci spararono. Avevamo dato un passaggio a una signora egiziana che, con la sua piccola figlia, voleva ad ogni costo raggiungere il marito. La donna fu colpita in piena fronte e il suo sangue spicciò come vino da una botte troppo piena. Morì stringendo la mano piccina della figlioletta; non fu facile staccare quella presa: anche la bambina era morta, come succede ai gattini cui non regge più il cuore. Già, i bambini. Dopo la disfatta egiziana nella Guerra dei Sei Giorni, bivaccavano alle porte del Cairo, in attesa dei congiunti scampati alla grande sciagura: il padre, i fratelli. Pochi erano i sopravvissuti al disastro provocato dalla richiesta, un rischio (mal)calcolato di Nasser: il ritiro dei -Caschi Blu messi sul Canale e nel Sinai dalle Nazioni Unite, dopo la crisi di Suez. Nasser era convinto, come ci avrebbe detto in seguito, che U Thant avrebbe respinto la sua richiesta, invece quello l'accettò. E fu la catastrofe. Durante la Guerra del Golfo, il 16 di febbraio del 1991, scrissi: «Quel ch'è accaduto a Baghdad la notte scorsa ne rievoca un'altra. Cairo, 9 di giugno del 1967: alle 7 della sera compare sul televisore il volto smunto di Nasser, inchiostrato da due occhiaie bituminose. Dice che di tutto quel ch'è successo (la disfatta) lui e soltanto lui è il responsabile. Pertanto, conclude, me ne vado. E d'improvviso piomba sul Cairo la mannaia del blackout, il televisore annega nel buio mentre il cielo s'accende dei fuochi della contraerea, rimasta muta durante tutta la breve guerra. Quando la contraerea si tace, s'ode poderosa e inquietante la voce del popolo. Sale dalle viscere del Cairo autentico, antico: quello dei morti di fame. "Nasser, Nasser", grida il sottoproletariato egiziano, plebiscitando il suo raiss. Che importa ch'egli sia stato sconfitto, Nasser è comunque il vincitore poiché è buono, gli altri sono i cattivi. Il ricordo di quella notte, invero storica, mi suggerisce alcune considerazioni. Se ce ne fosse stato bisogno, a Baghdad s'è avuta la conferma che Saddam non è Nasser. Lui, il "ladro di Baghdad",. non s'è visto. Saddam non ha parlato al suo popolo. Non ha avuto il coraggio terribile ch'ebbe Nasser. Ora l'Iraq è nell'elenco degli «Stati canaglia» e potrebbe subire un attacco americano, ovviamente «supportato» dalla Nato, italiani compresi. Temo che si ripeterebbe la tragedia della Guerra del Golfo: il dittatore in salvo, mercati pieni di roba destinata agli intrallazzatori, 100 mUa bambini che inesorabilmente muoiono ogni anno perché l'embargo vieta l'importazione di medicinali di base, di pappette. «15-2-1991: alla tv di Amman lo speaker piange. Scorrono le immagini sobriamente tragiche di quella «strage del bunkera che ha sfranto di colpo il giovine ma robusto mito della «guerra chirurgica», pulita, addirittura indolore. La guerra pressoché senza immagini ha ora una immagine antica: la morte degli innocenti. Certo, la propaganda irachena inzuppa il microfono del sangue dei poveri morti ammazzati ma c'è chi, rabbiosamente, negli Stati Uniti, non fa che ripetere: "Quel bunker era un obiettivo militare". Un giorno sapremo la verità perché in democrazia la menzogna non paga. In Italia non compariranno le sequenze più atroci di . questo film dell'orrore autentico. H tronco d'un ragazzo pietrificato dalla morte subitanea, il capo riverso, la bocca spalancata dall'urlo dello spasimo finale (ancora una volta, come in ogni guerra, ritorna l'Urlo di Munch a far da logo), le mani a cercare le gambe incenerite. Due mani di donna, due mani soltanto a galleggiare, incrociate, sul grembo sostituito da un grumo di carbone». Non sappiamo quanti morti ci sono esattamente stati nella Guerra del Golfo, tra la popolazione civile. E ci chiediamo quanti morti si porterebbe appresso la guerra del riscatto americano di cui tutti parlano, dandola per sicura. Quelli della strage delle Due Torri potrebbero superare i morti in Indocina. Il Vietnam, già. Ce lo porteremo sotto la pelle sino all'ultimo giorno. Chi c'è stato è tornato, ogni volta, a casa con unhagaglio pesante. I bonzi che si danno fuoco in piazza e muoiono senza lamento, solo digrignando i denti. I bam- bini che frugano nei rifiuti del Royal, come gatti randagi. Il massacro fatto dal plastico, esploso dinnanzi l'ambasciata americana. I contadini spellati dal napalm. I bar della via Tu Do gonfi di miagolanti piccole venditrici d'amore, bellissime e crudeli. I marines perdutamente ubriachi in quegli stessi bar protetti da pesanti griglie di ferro. Il profumo struggente dell'assenzio nei bicchieri mal lavati, l'acido fetore del vomito dei Gì squassati dalla sbornia, l'odore dolciastro dell'oppio, il dilagante puzzo di fogna e carogna. L'odore di Saigon, l'odore del Vietnam. Fu una guerra giusta o non lo fu? Lo ignoro né mi interessa stabilire chi fossero i buoni e i cattivi, laggiù. Il vecchio cronista sa che c'è stato qualcuno che ha creduto in quel che faceva. Tra i musi gialli e gli americani. Ci ha creduto pagando con la vita il suo atto di fede. E' questa la testimonianza che posso dare. Il Vietnam non era Saigon, una città di mandarini putridi, di ruffiani, di collaborazionisti. Il paese autentico erano i 10 milioni di contadini dignitosamente miserabili che non sapevano chi fosse Marx né tantomeno Lenin e tuttavia vedevano nell'uomo bianco il portatore della sciagura. I vietcong che contai tutt'intorno al perimetro devastato di Camp Kannack erano morti di guerra. Durante tre giorni avevano attaccato quel campo di berretti verdi. Saltavano i reticolati adoperando a mo' di aste lunghi tronchi di bambù e poiché portavano ghirlande di bombe a mano, una volta a terra esplodevano. La radio s'era bloccata, i VC s'inerpicavano oramai alla conquista dell'ultimo girone. Di colpo la radio s'aggiustò, venne chiamata l'aviazione e presto bombe a mezz'altezza uccisero i vietcong colpendoli alla tempia. Col cuore che mi rompeva le tempie, ne contai 140. Morti. Sparsi sulla mota verde i lunghi capelli neri, i volti color della giada aureolati da un sorriso intimo. Morti poveri, col tascapane di foglie di bambù intrecciate, ai piedi cioce ricavate da copertoni Made in Urss, ragazzi bruciati verdi dalla violenza del comunismo giallo. Comprai da un sergente sudvietnamita il taccuino che aveva cavato dalla tasca di un vietcong. Nguyen Hung Cam, guerrigliero venuto dal Nord dopo due mesi di marcia giù per la pista di Ho Chi Minh. Idealmente accanto alle sue note trascrissi qualche passo delle lettere del capitano James Polle Spruill, nato a Salem il 10 di febbraio del 1931, morto a Vinh Long saltando su di una mina 11 21 di aprile del 1964, sposato, due figli, giunto nel Vietnam il 18 di novembre del 1963. Sono gli scritti di due uomini diversi (all'apparenza): uno credente, l'altro ateo. Un capitano uscito da West Point e un veterano della guerriglia. Eppure questi due nemici si somigliano. S'identificano (forse) nell'amore per la sposa e i figli lontani, perché certamente credevano in quel che facevano. L'ultima lettera del vietnamita: «Sono fiero di quel che faccio, ma forse farei meglio se tu, dolcissima mia compagna, fossi con me. Non disperare mia amata, e canta ai figli la canzone della donna che attende lo sposo: "Anche mille leghe lontano, certo, amico, tu senti / nel sole, nella pioggia, nel vento, nella notte / questo cuore che palpita dentro questa pietra costante". Aspettami mia diletta, tornerò"». La notizia dell'assassinio di Kennedy raggiunse il capitano Spruill a Vinh Long: «Come dice il poeta: "La morte dell'uomo mi diminuisce". Mio Dio, benecncilo». Natale del 1963: «La notte di Natale sono sceso in paese per la messa in una chiesetta cattolica. Vidi un piccolo bimbo che me ne ha ricordato un altro che ben conosco, così ho avuto la forza di sorridere. Ma la madre deve aver letto nei miei occhi poiché protese il bambino posandomelo sulle braccia. Il mio cuore straripava di tenerezza e di gratitudine. Ho realizzato la felicità di avervi, voi tre, voi che mi avete dato 0 più grande dei doni: l'amore. E' stato 2 più bel Natale della mia vita». L'ultima lettera: «Ho medicato una bambina colpita da una mina al fosforo bianco, badando che non perdesse le budella. Aveva due anni. Mi sento come se fossi morto un poco». «Molto sudore e, ahimé, molto sangue, rimane ancora da versare, ma su con la vita. A presto». Un Personaggio che conta in Europa, in America, mi ha raccontato che quand'era ufficiale in Russia vide, in prima linea, soldati tedeschi che con lo zaino carico di munizioni affrontavano allo scoperto una passerella per rifornire commilitoni finiti in una sacca. I russi li ammazzavano, uno per uno, come centrassero birilli. «Ma sono degli eroi» esclamò il Personaggio. «No», rispose l'ufficiale tedesco di collegamento: «Sono prigionieri russi ai quali abbiamo messo la divisa nostra». Tranne forse quello eticamente doveroso contro i nazifascisti i conflitti del mondo moderno non hanno avuto altro risultato che un bagno di sangue senza riuscire a risolvere quei problemi per i quali erano stati dichiarati Nellafoto, un'immagine della sanguinosa guerra in Vietnam, che si concluse nel 1975