I Taleban scavano le trincee e aspettano di Mimmo Candito

I Taleban scavano le trincee e aspettano I Taleban scavano le trincee e aspettano Ricavati nella roccia e protetti dall'elettronica i rifugi di Bin Laden analisi Mimmo Candito NELL'AFGHANISTAN distrutto da una guerra che dura da vent'anni, disperato, cencioso, muto e cieco sotto la sferza iraconda dei Taleban, ora affannosamente si scavano anche le trincee. Si scava con le vanghe e con la mani, sono le trincee del terrore, della paura senza volto, della morte che arriva improvvisa dal cielo; e si scava dovunque, si scava a Kabul, tra le macerie spettrali d'una guerra mai finita, si scava a Jalalabad e nei suoi lunghi viali un tempo verdi, a Khandahar la dolce e nelle sue piccole moschee, e poi a Herat, e a Bamyan, e a Mazar i-Sherif, e nei cento e mille villaggi che in tutti questi anni sono stati attraversati dal vento della Jihad in quella sua rincorsa tragica e folle verso un paradiso di Allah da costruire in terra. Si scava e s'aspetta, con gli occhi verso il cielo. Il dito del mondo è puntato laggiù, accusatorio ancora, inquisitorio; perché laggiù, in quelle montagne, su quegli itinerari di guerra e di morte, c'è Bin Laden, e Bin 1 Laden è l'indiziato numero uno. I suoi rifugi sono perduti dentro la roccia, profondi, inaccessibili, apparentemente simili a quelli dei pashtun che un tempo combattevano e resistevano ai lanceri della regina Vittoria e poi hanno ancora combattuto, e hanno resistito, anche ai soldati dell'Armata Rossa; la differenza sta però nella sofisticata rete elettronica che protegge ora la sicurezza di questa Primula Verde, nelle centrali operative che sotto le rocce guidano collegamenti, raccolgono informazioni, inviano segnali e codici utilizzando le tecnologie più avanzate. Lo sceicco ex-saudita (gli è stata tolta la cittadinanza dell'Arabia) ha dunque solo i panni del passato, la galabyia, le babbucce, il turbante, un barbone incolto e selvaggiamente mistico; ma poi si muove come un uomo del nostro tempo, con ogni conoscenza delle straordinarie possibilità che l'informatica offre a chi sappia servirsene, nel bene e nel male. Lui ha scelto quello che noi chiamiamo il male e che lui, invece, chiama la via della giustizia divina: «Combatto il grande satana americano e le sue perversioni, per diffondere la parola santa di Allah». E con questa sua scelta ieri è tornato a difendere l'attacco portato martedì contro l'America: «E' stato un atto compiuto nel nome di Allah». Il fanatismo, quando s'accompagna al controllo delle nuove tecnologie, crea un terrorismo di straordinaria, drammatica, pericolosità. L'« Al Hajat», quotidiano arabo di Londra, sintetizza l'allarme per il mondo intero in questa dichiarazione trasmessa da sotto quelle rocce dove si nasconde la centrale di Bin Laden: «Abbiamo con noi migliaia di giovani dotati delle capacità scientifiche e militari necessarie a condurre una guerra chimica, batteriologica e nucleare. Sono fedeli di Allah, il loro desiderio è di portare nel mondo la parola del Profeta». La guerra chimica, batteriologica, nucleare. E' il terrore dell'Apocalisse che pesa sul futuro del nostro pianeta; e le vanterie di quella dichiarazione - anche se in questo momento è probabile che siano senza un fondamento reale - disegnano comunque uno scenario quale soltanto le angosce più profonde possono evocare. In questi vent'anni di guerra l'Afghanistan è diventato la terra dalla quale odio e fanatismo si spargono per il mondo intero. Gli «afghani», i 25 mila mujaheddin che i dollari della Cia e dell'Arabia saudita avevano formato, istruito, e creato lungo la frontiera del NordEst per fame le milizie con cui ributtare al di là delle montagne gl'invasori comunisti dell'Armata Rossa, sono ormai sfuggiti al controllo dei loro creatori; e come un Frankenstein impazzito ora formano il nucleo duro di tutte le guerre e guerriglie che - nel nome dell'Islam - vengono combattute in ogni angolo del mondo, dall'Algeria alle Filippine, dall'Indonesia al Turkmenistan o all'Afghanistan. Sono i più duri, professionali e disperati. Fanatici senza perdono. Un Report riservato della «Jane's Intelligence Review» (la più importante e credibile fonte di notizie in questo campo di difficile penetrazione) traccia un quadro impressionante della forza militare che si è costruita in questi anni nelle montagne afghane sotto la bandiera verde di Allah. La «Jane's» riporta infatti che il numero di stranieri arruolati nelle file dei cosiddetti mujaheddin non è stato mai alto quanto oggi, e che la vecchia cifra di 12 mila combàttenti è ormai largamente superata. Ma la parte più interessante del Report riguarda la composizione per nazionalità di questi «legionari»: accanto agli uonùni delle truppe speciali dell'esercito pachistano, con compiti principalmente di assistenza e di addestramento ma non pare - d'intervento diretto nel campo di battaglia (anche se gli uomini di Massud hanno presentato più volte ai giornalisti qualche militare «pachistano» loro prigioniero), e accanto ad altri 5000 - forse 7000 pachistani che collaborano attivamente penetrando in territorio afghano dalle terre pashtun del Belucistan e del North-West Frontier, si segnalano ora centinaia e migliaia di volontari che provengono dal Punjab, dal Sindh e da Karachi. Oltre ai pachistani, nella piana di Shomali sono acquartierate le formazioni arabe, vestite, inturbantate e barbute come i Taleban, ma in arrivo da Algeria, Egitto, Siria, Libano, Palestina e Marocco; sono il contingente «legionario» più numeroso, e sono comandati da un capo guerrigliero tunisino. La sorpresa più preoccupante arriva però dai battaglioni che hanno base militare a Deh Dadi, dove c'erano le caserme di una divisione del vecchio esercito afghano. Questi uomini, infatti, un contigente di circa 2000 combattenti, arrivano dalle terre dell'Asia, le vecchie Provincie dell'impero sovietico - uzbeki, kirghizi, tajiki, kazaki, molti ceceni -, ma anche dalle sperdute regioni dell'impero cinese, gli uighur dello Xinjiang. E squarciano un nuovo orizzonte, che ora allarga il campo di battaglia dell'Islam fondamentalista fin dentro il cuore della nuova Cina e della nuova Russia, lanciando i tentacoli d'una piovra mortale. E che non si tratti soltanto dei guerriglieri in sandali che noi giornalisti abbiano sempre incrociato nelle nostre avventure afghane lo ricorda ora Barsu al-Burwaz, ex pilota dei Boeing delle linee aere afghane, 1'«Ariana». Dice di avere istruito, lui stesso, e altri due ex piloti dell'Ariana (i comandanti Sattar e Fayid), «14 allievi piloti, la gran parte arabi, ma anche pachistani e afghani, per conto dei Taleban. E tra noi istruttori c'era anche un altissimo ufficiale dell'aviazione pachistana, il generale Islam Khan». In queste ore drammatiche, l'Afghanistan disperato scava le trincee dove proteggere, più che la vita, la paura della sua povera gente. Il mondo trattiene il fiato, e guarda verso l'America, verso la sua aquila dalle grandi ali; il dito puntato della Giustizia indica oggi le terre che s'allargano sotto l'Hindo Kush. La morte sta volando a larghi giri su quel cielo. Tecnologie supersof isticate garantiscono la sicurezza del terrorista più ricercato del mondo, che ieri ha di nuovo difeso le stragi di martedì «compiute nel nome di Allah» La rivista <dane's» traccia un quadro impressionante della grande armata che i mujaheddin hanno costruito sotto la bandiera dell'Islam fondamentalista