I Paesi poveri accusano "I ricchi ora devono aiutarci"

I Paesi poveri accusano "I ricchi ora devono aiutarci" DIBATTITO DI EUROPA CON ESPERTI DA TUTTO IL MONDO I Paesi poveri accusano "I ricchi ora devono aiutarci" II confronto a Parigi, presso la Camera di Commercio Internazionale - Si accentua lo squilibrio tra le nazioni sviluppate e quelle emergenti: le prime hanno concluso il '75 con una modesta eccedenza, le altre con un passivo di 14 miliardi di dollari Quasi tutti i Paesi risentono, con intensità diversa, delle conseguenze provocate dal rallentamento dell'attività produttiva e dall'incidenza di forti pressioni inflazionistiche. Mentre le Nazioni industrializzate sono quasi riuscite, salvo alcune eccezioni, a preservare l'equilibrio delle loro bilance dei pagamenti, i Paesi in via di sviluppo continuano ad accusare passivi in costante aumento. Per questi ultimi la ripresa economica è molto ineguale, a seconda delle regioni. Sono queste, riassunte schematicamente, le principali conclusioni del rapporto annuale che la Camera di commercio internazionale si appresta a divulgare. Alla vigilia della pubblicazione della relazione, l'ente ha voluto riunire, con quattro giornalisti di EUROPA, uomini d'affari di diverse nazionalità. Tema della tavola rotonda: l'esame delle principali questioni economiche mondiali. Al dibattito hanno preso parte Gerd Tacke, membro del Consiglio di amministrazione della Siemens Ag tedesca, l'americano Ian MacGregor, presidente della società mineraria Amax Inc., l'inglese Sir Reay Geddes, presidente della Dunlop Holdings Ltd., Mario Nogueira, consigliere economico dell'ambasciata brasiliana a Parigi, Jacques Ferry, presidente della Camera sindacale per la siderurgia e vicepresidente del Consiglio nazionale della con(industria francese, il pakistano Mohamed Ali Rangoonwala, presidente della Burma Oil Mills Ltd e i giornalisti Alberto Cavai- lari, « La Stampa », loachim Schaufuss, «Die Welt», Jacqueline Grapin, «Le Monde», e Simon Scott Plummer, « The Times ». Dallo scambio di opinioni è emersa una nota sconfortante: anche se i danni provocati dalla crisi possono sembrare limitati, occorrerà molto tempo per riparare i guasti arrecati all'economia mondiale. EUROPA — Affrontiamo per primo il problema della pianificazione. Le imprese e le organizzazioni nelle quali esercitale le vostre responsabilità ritengono di trovarsi in una situazione di « ipotesi di stabilità ricostituita » o preferiscono piuttosto sostenere di operare in « uno stato di crisi prolungata malgrado la ripresa »? SIR REAY GEDDES — Per fortuna diventa più facile avanzare previsioni dato che, nell'insieme, il sistema economico mondiale ha attraversato la crisi con tempi e modi migliori di guanto si immaginasse. Il sistema monetario non è affondato, le fluttuazioni nei tassi di cambio non sono state disastrose, i governi sono riusciti ad arginare numerose difficoltà, anche se il compito si è rivelato abbastanza delicato in Inghilterra e in Italia. Non ritengo che le nostre ipotesi di pianificazione debbano essere fondate sul terreno franoso della crisi. E' chiaro d'altronde che fare affari continuerà ad essere molto complicato. Lo sviluppo industriale non riuscirà a ritrovare il ritmo degli Anni Sessanta. E' probabile quindi che si debba procedere ad un nuovo sistema di distribuzione dei profitti per agevolare i Paesi in via di sviluppo. Tutto dipende dalla crescita dei Paesi industrializzati: se sarà troppo ostacolato dalla politica mondiale per la ridistribuzione delle ricchezze, il meccanismo economico rischia di funzionare al rallentatore. Le fonti di capitale si inaridiranno, il marasma diventerà permanente perché quasi tutte le previsioni economiche dipendono da questioni politiche. EUROPA — Che evoluzione prevede in Inghilterra in seguito all'accordo fra il governo e le organizzazioni sindacali? SIR REAY GEDDES — Non riesco a scorgere particolari motivi di ottimismo se guardo verso l'alto, cioè in direzione dei dirigenti. Spero comunque che prevalga il buon senso popolare. L'accordo sui salari mi pare rispecchi il buon senso espresso da alcuni dirigenti sindacali. Per me gli inglesi ricordano ciò che si vede sorvolando in elicottero i tronchi che scendono lungo i fiumi. Quando il corso è largo, i tronchi si muovono lentamente, sperdendosi in varie direzioni, mentre si riuniscono, per puntare nella stessa direzione, quando il letto si fa più stretto. TACKE — Mi sembra che possiamo ammettere di trovarci dinanzi ad una modesta ripresa non solo nei Paesi industrializzati, ma anche nel Terzo Mondo. MACGREGOR — Non dimentichiamo l'inflazione, che resta una forza distruttrice dello sviluppo e della convalescenza delle nostre economie. Attualmente sta distruggendo il capitale. TACKE — Non sono d'accordo nel ritenere che l'inflazione debba essere una caratteristica inevitabile dell'economia moderna. Può essere evitata. Non chiediamo l'intervento dello Spirito Santo: alcuni Paesi hanno dimostrato che è possibile contenerla. E' il caso della Germania federale. EUROPA — Ritenete che l'attuale livello inflazionistico sia troppo alto per poter essere efficacemente ridotto? In altri termini, non si potrebbe dire che l'inflazione sia diventata una necessità per garantire una certa continuità di espansione? TACKE — Sono convinto che non si tratta di una legge. Facciamo un esempio: alcuni esperti possono considerare che il 6 per cento è un tasso d'inflazione, altri un tasso di stabilità. Molti Paesi sostengono che questa cifra rappresenti un traguardo. Non penso che si potrà ritornare, prima di molti anni, a livelli di stabilità basati su un incremento dell'uno, due o tre per cento l'anno, ma non considero che si debba parlare necessariamente di inflazione sotto il livello del 6 per cento. FERRY — Attualmente la Francia si trova circa nel mezzo del plotone delle nazioni occidentali. Il suo tasso istantaneo, espresso in rapporto alla media annuale dell'erosione monetaria e dell'aumento dei prezzi al dettaglio, è inferiore a quello registrato in Italia e in Inghilterra, e decisamente superiore alle quote della Germania e degli Stati Uniti. La tensione che si sta verificando da circa due mesi non rappresenta, a mio avviso, le avvisaglie di un importante rilancio dell'inflazione nell'immediato futuro, perché essa è stata provocata da fattori stagionali, che si riproducono ogni anno, e perché corrisponde ad alcuni ritocchi salariali introdotti di recente nel settore pubblico. Gli altri fattori puntano in senso opposto. Nei prossimi mesi assisteremo a un'importante ripresa dell'attività produttiva, che oggi non riesce ad utilizzare al massimo le proprie capacità, e che potrà invece impiegare meglio la manodopera conservata durante il periodo di crisi. MACGREGOR — Se quattro anni fa ci fossimo presi la briga di descrivere a un banchiere o a un economista gli eventi che si sono verificati fino ad oggi, possiamo essere sicuri che essi avrebbero predetto, senza esitazioni, una catastrofe colossale. Ciò dimostra che il nostro sistema è più flessibile di quanto credevamo. RANGOONWALA — Io provengo da una regione sottosviluppata. Nei Paesi asiatici l'inflazione ha scardinato le strutture. Osservando quanto è successo in due anni su scala mondiale, non siamo affatto ottimisti. Sarò preciso: siamo pessimisti. E' da 25 anni che lanciamo grida di allarme. Se qualcuno ci avesse ascoltato in tempo non ci troveremmo nella disastrosa situazione attuale. L'aumento del prezzo del petrolio ha intaccato la salute dei Paesi sviluppati, ma ha penalizzato pesantemente gli altri. Le cifre fornite dall'Ocse si commentalo da sole. I Paesi che ne fanno parte, i più ricchi, hanno concluso il 1975 con una modesta eccedenza, gli altri hanno registrato un passivo superiore ai 14 miliardi di dollari, il più alto mai raggiunto. E si parla già di 30 miliardi di deficit per il '76. Nei Paesi in via di sviluppo è radicata la convinzione che la crisi economica non sia superata. Forse è stata aggiornata, per ragioni politiche, ma non è diventata un ricordo del passato. Un nostro proverbio dice: « La carità efficace comincia da se stessi ». Se i Paesi industrializzati non riusciranno a convincersi che debbono aiutare le nazioni emergenti, e se queste ultime non esamineranno seriamente la possibilità di mettere a punto progetti e piani che tengano conto delle realtà economiche e industriali, mi riesce difficile scorgere un cielo sereno all'orizzonte. EUROPA — Vorremmo sapere se i mercati dei Paesi in via di sviluppo sono considerati redditizi dagli altri Paesi e dalle multinazionali, in modo da far leva su questo interesse remunerativo nei negoziati internazionali. TACKE — Sono convinto che il compito principale che ci dovremo assegnare per i prossimi 25 anni sarà la riduzione degli scompensi nei redditi fra Paesi. Un ruolo preminente spetta all'impresa privata. Dovrebbe compiere il massimo sforzo in vista di tale obiettivo, non solo in funzione dell'interesse diretto, ma perché è in gioco il destino del mondo. Le nazioni che definiamo « in via di sviluppo » stanno ancora marciando a passi lenti. Il mondo industrializzato e semi-industrializzato rappresenta l'80 per cento del mercato mondiale, ma non è questo il problema. I grandi sviluppi scaturiscono abitualmente da operazioni marginali: il tre, quattro per cento del commercio mondiale è già una cifra di tutto rispetto. Rangoonwala afferma che gli sforzi compiuti nell'ultimo quarto di secolo non sono stati coronati da successo. E' vero se lo si misura in proporzione ai tentativi, forse a causa dell'esplosione demografica dei Paesi sottosviluppati. Eppure il prodotto nazionale lordo ha continuato a crescere; purtroppo non è stato accompagnato dall'aumento del reddito prò capite. La lezione da trarre è precisa: problemi di tale ampiezza richiedono più di una soluzione. Alcuni Paesi, come il Brasile, hanno già ottenuto risultati notevoli. NOGUEIRA — La crisi ci ha insegnato una cosa preziosa. Le relazioni fra Paesi sviluppati e quelli che non lo sono ancora non possono più essere viste sotto l'ottica del confronto, ma piuttosto dell'interdipendenza. E' evidente che i Paesi industrializzati hanno bisogno di esportare per sostenere l'espansione a lungo termine. Il nocciolo della questione è di sapere come finanziare le esportazioni. Vorrei proporre due soluzioni: o si mette ordine nelle procedure finanziarie, o si deve procedere alla revisione dei termini sugli scambi commerciali. Oggi il Brasile, che ha conosciuto un forte tasso di sviluppo (più del 10 per cento da quasi otto anni), si trova precisamente alle prese con un problema di questo tipo. Lo scorso anno ha patito la riduzione del ritmo di crescita, appena sufficiente a coprire l'aumento demografico, mentre la bilancia commerciale segnava un passivo di 5,5 miliardi di dollari. Non è restata altra scelta che finanziare il meccanismo con prestiti supplementari. TACKE — Fra l'aiuto e il commercio bisogna scegliere il commercio, non ci sono dubbi. FERRY — Ha ragione, ma bisogna fornire progressivamente a questi Paesi una potenzialità finanziaria « onesta »: assicurare sbocchi di mercati sicuri e a prezzi garantiti per la vendita delle materie prime e dei prodotti alimentari, quando i due rappresentano le principali risorse delle loro economie. So bene che esistono già organizzazioni e accordi che operano verso tale fine, ma ritengo che la progressione su questa strada sia stata finora troppo timida. Dal momento che si decide di progredire nel senso voluto, bisogna rendersi conto che i Paesi industrializzati dovranno sopportare un certo trasferimento di ricchezze e del potere di acquisto. SIR REAY GEDDES — / mercati sono indubbiamente interessanti, alcuni più degli altri, ma non si può agire a vanvera senza un preciso equilibrio dei criteri in grado di assicurare l'utilizzazione efficace delle risorse e del loro rinnovamento. Se è vero che il grosso capitale 'ha la tendenza a mancare in rapporto ai bisogni della comunità, i Paesi cosiddetti poveri debbono capire che è necessario operare almeno uno sforzo minimo per attirarlo. Sono persuaso che ne sono convinti più di quanto lo dimostrino i discorsi dei loro uomini politici. Negli ultimi anni sono stati stipulati oltre 150 trattati bilaterali per promuovere e proteggere gli investimenti. La realizzazione di un contratto accettato dalle due parti non deve essere considerata un attentato alla libertà. RANGOONWALA — Oggi è facile accusare le imprese private di aver provocato tutti i mali dei Paesi sottosviluppati. Non pretendo che siano perfette, come non lo sono i dirigenti dei nostri Paesi. Dovremmo piuttosto definire la nostra politica nei confronti del ruolo che spetta alle società private e a quelle del settore pubblico. La questione insomma non è di sapere in che misura gli investimenti occidentali siano pronti a venire da noi, ma in quale misura noi siamo disposti ad accettarli. Ecco la necessità di precisare le nostre richieste. MACGREGOR — / primi due secoli della civilizzazione industriale sono stati dominati dal concetto della produttività del capitale. Oggi siamo a cavallo fra questo modo di pensare e la tesi dell'utilizzazione sociale delle risorse. Si tratta di due concezioni totalmente differenti. Nei Paesi che hanno adottato la seconda tesi assistiamo alto spreco quasi tragico delle risorse. Basta vedere che si impiegano 60 persone per assistere un aviogetto allo scalo di Mosca, mentre a New York ne occorrono, per lo stesso lavoro, una decina. FERRY — Le industrie leggere e le imprese medie e piccole svolgeranno un ruolo determinante nel Terzo Mondo. Purtroppo spesso esse ignorano le possibilità che potrebbero essere loro offerte perché si considerano troppo deboli per spingersi così lontano. La conoscenza della garanzia dell'investimento e la qualità delle informazioni che dovrebbero essere fornite potranno forse cambiare questo atteggiamento. Ciò è importante, perché le attività delle costruzioni edili, dell'alimentazione, del vestiario riescono più delle altre ad accrescere rapidamente il livello del tenore di vita. RANGOONWALA — La nostra prima priorità dovrebbe essere l'agricoltura, la seconda l'industria alimentare, la terza la piccola industria leggera. Poi, se restano ancora i mezzi a disposizione, la grande industria di prestigio. Purtroppo oggi si tende ad avere industrie sofisticate come quelle dei Paesi industrializzati i quali, per fornircele, si approvvigionano da noi di materie prime a buon mercato. E se per caso ci capita di esportare alcuni beni finiti, ecco che dall'estero si erigono subito barriere doganali. C'è inoltre un altro fattore importante, gli investimenti locali. E' triste constatare che attualmente gli investimenti dei Paesi in via di sviluppo nei Paesi più forti siano superiori agli investimenti effettuati dai Paesi sviluppati nelle nazioni « deboli ». I tre quarti dei depositi presso le banche svizzere provengono dalle nazioni del Terzo Mondo. Se queste non riusciranno a convincere i propri imprenditori a investire "in casa", è evidente che qualcosa non fila per il verso giusto. In tali condizioni, come si potrebbero attirare gli investimenti stranieri senza accordare loro facilitazioni speciali? EUROPA — Credete nel « codice di buona condotta » per le multinazionali preparato dalle Nazioni Unite e dall'Ocse per sventare la corruzione? TACKE — Protesto fermamente contro l'accostamento « corruzione e multinazionali ». Voglio sia ben chiaro che le imprese multinazionali si uniformano nel loro insieme a criteri sociali e morali nettamente superiori a quelli delle imprese non a carattere multinazionale. E tanto per essere preciso, faccio presente che la Lockheed non è una multinazionale. Si tratta di una società americana al cento per cento. MACGREGOR — Io direi che è strettamente legata al governo americano... RANGOONWALA — E' inutile nasconderlo: la corruzione esiste da sempre e continuerà a esistere. E' sbagliato sostenere che la corruzione sia una specialità delle multinazionali o dei grossi trust privati. Quando c'è la corruzione ci vogliono almeno due partners. Se i governanti fossero realisti e più disposti a tenere in conto i propri elettori, avrebbero già messo fine a questo andazzo. TACKE — Le prime a rallegrarsi per la scomparsa della corruzione sarebbero le multinazionali. MACGREGOR — Se fossi marxista, comincerei con l'attaccare le multinazionali per il semplice motivo che rappresentano la smentita quotidiana alle tesi di Karl Marx. Dimostrano infatti che il sistema capitalista funziona, assicurando il trasferimento delle competenze, delle conoscenze tecnologiche, dei profitti, formando le maestranze e sviluppando le risorse. La maggioranza delle multinazionali funziona con norme superiori alle società che operano negli stessi Paesi. A voler essere schietti, ci si accorge che le bustarelle passate ai partiti politici non sono spontanee ma richieste. Aggiungo che in moltissimi casi la direzione delle filiali locali delle multinazionali è affidata a cittadini del Paese ospitante... SIR REAY GEDDES — Vorrei ricordare, a proposito dell'efficacia del "codice di condotta", che la Camera di commercio internazionale ne aveva suggerito lo studio già nel 1969. Quei primi documenti sono diventati la base del rapporto allestito dall'Ocse. In pratica le cose vanno diversamente dato che ciascun Paese applica la propria legislatura. In nessun caso il codice potrebbe diventare né un'alternativa né un'aggiunta alle disposizioni legislative nazionali. EUROPA — Qual è la vostra opinione sulla futura divisione internazionale del lavoro? Sarebbe meglio servirsi di manodopera immigrata nei Parai sviluppati o trasportare le fabbriche nei Paesi densamente popolati? FERRY — Benché sia fautore della libera iniziativa, ritengo che, se spinto alle conseguenze estreme, il principio della divisione del lavoro costituisca un aspetto sorpassato nel quadro degli scambi internazionali. Esso non può resistere agli effetti di alcune crisi, come quella che stiamo vivendo, e alla preoccupazione dei diversi Stati nel preservare un minimo di autonomia e di indipendenza. Bisogna trovare soluzioni intermediarie che potrebbero comportare, in periodo di recessione, l'adozione di misure provvisorie di difesa, ma concertate. TACKE — Non smettiamo di proclamare che non vogliamo essere indipendenti ma interdipendenti. Allora che fare visto che non tutto è possibile? Spostare i lavoratori verso le fabbriche o viceversa? Siamo d'accordo che sarebbe meglio avere fabbriche della Siemens in Grecia e in Turchia piuttosto che gli operai greci e turchi in Germania. Non dimentichiamo però che abbiamo bisogno di garanzie e di un certo « quoziente di accoglimento ». Non ci piace insomma andare dove non siamo graditi. ; ■: ■■■■ ■ -