Razza democristiana

Razza democristiana Perché, nonostante tutto, la de s'è rafforzata Razza democristiana Il voto di quattro elettori su dieci, proprio nell'anno in cui il partito è stato più duramente accusato, è il dato più problematico del 20 giugno - Conservazione del "grande privilegio" e mantenimento del "piccolo privilegio", paura del "salto nel buio", e "nuovo ma incerto" - Come hanno agito gli apparati ideologici «Sarà stato solo un sogno — ripetevano gli ufficiali ai parenti delle vittime che affollavano gli uffici dei comandanti in cerca di notizie —. A Macondo non è successo nulla, né sta succedendo né succederà mai nulla. Questo è un villaggio felice». Come nella leggendaria Macondo dei Cent'anni di solitudine di Marquez, anche in Italia non è successo nulla, né sta succedendo né succederà mai nulla. Ci eravamo tutti sbagliati. Cia, Lockheed, bustarelle, corruzione, sottogoverno, clientelismo, mafia, stragi di Stato: fanfaluche tirate fuori dal fumo della fantapolitica, e che qualcuno si è divertito a strumentalizzare per gettar fango sugli onest'uomini che ci governano. Sì, ci eravamo proprio sbagliati. Pensate: credevamo che il 18 aprile del '48 (data d'inizio del regime democristiano) si fosse interrotto quel rinnovamento dello Stato e della società civile scaturito dalla Resistenza e che si fosse invece avviato un processo di involuzione politica e sociale. Ci sembrava di scorgerne già i primi sintomi nella mancata «pulizia» delle gerarchie statali (dove gli ex funzionari fascisti ripresero tranquillamente il loro posto) e delle forze dell'ordine (con l'accentuata fascistizzazione favorita da Sceiba sul finire degli Anni Quaranta). Pensavamo di averne una conferma nella politica economica «so- stanzialmente di destra» (citiamo da Francesco Forte), che consegnò al decennio successivo una massa di problemi di riforme non risolti e un «miracolo economico» strutturalmente distorto perché costruito quasi tutto sul basso costo del lavoro. Non solo. Ci pareva così chiaro che la de, lungo tutti questi trent'anni, aveva sempre di più teso ad identificare il governo con lo Stato, il sottogoverno con il governo, il clientelismo con i rapporti politici, la corruzione con il normale operare della macchina burocratica. Quando poi ci venivano in mente la Cassa del Mezzogiorno o Tiri di Petrilli o la bernabeiana Rai-Tv; quando ci soffermavamo sullo scandalo dell'Anas o su quello del petrolio o su quello della Lockheed, sui tanti Crociani e Lefebvre che ci circondano; quando qualcuno ci ricordava il Sifar, il Sid e le loro tragiche connivenze nerogolpiste protette in alto le co: allora proprio non avevamo più dubbi. E invece no. Tutto ciò non deve essere mai successo in Italia. Perché altrimenti, come potevano quattro italiani su dieci votare democrazia cristiana, il partito cioè che quegli episodi indicano come il maggiore responsabile, il principale imputato? Ma se non accettiamo la tentatrice ipotesi marqueziana che il nostro Paese sia una Macondo dove tutto e nulla avviene, ai- lora abbiamo il dovere di chiederci — prima di esaminare qualsiasi altro aspetto del voto del 20 giugno, spostamento a sinistra compreso — perché sia stato possibile un rafforzamento del partito più compromesso d'Italia. Partirei dal livello stutturate, ossia dei rapporti socioeconomici. Nel voto de sono confluite due componenti: la conservazione del grande privilegio e il mantenimento del piccolo privilegio. Conservazione del grande privilegio: è, in pratica, la conservazione della proprietà privata nella sua accezione capitalistica (ossia, tendente a liberarsi da vincoli, anziché soggiacere a nuovi limiti), con una gamma di dimensioni che va dalla tradizionale proprietà industriale terriera, a quella che contraddistingue la privilegiatissima categoria dei «professionisti». Per mantenimento del piccolo privilegio intendo invece la seconda casa, la barca, il week-end d'Inverno in montagna e d'estate al mare, in generale la consuetudine consumistico - individualistica del tempo libero che dalle classi più ricche si è velocemente propagata a quasi tutte le altre (con un processo esattamente opposto a quello descritto da Jung per l'epoca del tardo Impero romano, quando il modo di vivere degli schiavi permeò di sé quello dei padroni). Aggiungerei all'elenco dei piccoli privilegi l'assenteismo, falso frutto della conflittualità endemica, e la sua diretta conseguenza: il doppio lavoro, che sottrae produttività alle imprese e colma (ma solo in senso deteriore, consumistico) il gap di giustizia salariale. E passiamo a quel livello di analisi che Roberto Guiducci chiama sottostrutturale, ossia il livello dell'inconscio e del subconscio. Il voto de è stato, tipicamente, il voto della paura. Paura di che cosa? Paura del «salto nel buio», paura del «nuovo ma incerto» (non lasciare la strada vecchia, eccetera), paura della «menomazione individuale» (e se i comunisti poi collettivizzano tutto?), paura della «perdita del privilegio» (io che ho lavorato e sudato tanto per conquistarmi questo...). In ciò, è evidente, il livello dell'inconsciosubconscio fa da supporto, da alimento, al livello strutturale, dei rapporti socio-economici. Ma allo stesso tempo deriva direttamente dal terzo livello possibile di analisi, quello sovrastrutturale, ossia quello dell'ideologia. Difatti le paure di cui parlavamo — al di là, intendiamoci, di un loro possibile aggancio con la realtà — sono tipicamente, per loro natura, paure «indotte», provocate. Nelle nostre società tardocapitalistiche e (quasi) postindustriali, la lotta ideologica per la conservazione dell'esiablishment non è condotta soltanto, e apertamente, dai tradizionali organismi destinati alla strategia del consenso. Come ha delineato Althusser, vi sono altri e ben più potenti «apparati ideologici» che svolgono tale funzione: e sono — secondo lo studioso francese — la famiglia, la Chiesa, la scuola, il sistema legale, i sindacati, i mezzi di informazione, e così via. Ma in che modo questi «apparati ideologici» conducono la loro battaglia? Con dei contenuti espliciti, ovviamente (e a questo livello la generalizzazione althusseriana può sembrare arbitraria: si può dire che esistono mezzi di informazione conservatori e mezzi di informazione progressisti, sindacati sinceramente anti-es/abfis/iment, eccetera). Ma, soprattutto, la conducono convogliando — al di là e al di sotto dei contenuti espliciti — dei modelli di comportamento, archetipi, stereotipi, strutture mentali. Ed è su questo piano che tutti gli «apparati ideologici» diventano strumenti di conservazione dello status quo, indipendentemente dai contenuti espliciti che sembrano trasmettere. Faccio l'esempio dei mass media, che è quello a me più familiare. Non v'è dubbio che vi siano stati, per esempio, in questa campagna elettorale, organi di stampa che hanno propugnato apertamente una «svolta» per l'Italia. Ma questo era il contenuto immediato. Al di sotto, riducendo il «discorso» ad alcune categorie-archetipi, ci si accorgeva che queste erano le stesse (o quasi) per tutti: la «naturalità» di una scala gerarchica nella società; l'intoccabilità della divisione del lavoro, dei ruoli e (nonostante le sortite radicali) dei sessi; l'impre-| scindibilità del benessere individuale; il distacco tra lavo- ] ro e tempo libero (con annotazione negativa per l'uno e positiva per l'altro); l'assunzione, come punto di riferimento costante, del «sistema dei rapporti interpartitici» (sclerotizzati, o comunque formali) a scapito dei rapporti socio-economici (sostanziali, ma pericolosi perché non «ingabbiati»). Categorie-archetipi, come si vede, assolutamente non alternative, ripetitive della società borghese. E sul loro terreno, come è ovvio, la de era più credibile, più reale. Ricordo, a questo punto, le parole che sentii pronunciare un paio d'anni fa da Armand Mattelart, lo studioso cileno che Allende aveva voluto con sé per organizzare la sua «politica dell'informazione»: «Dopo aver lottato per strappare il controllo dei mass media alla borghesia, a poco a poco ci accorgemmo che, al di sotto dei contenuti rivoluzionari, noi propagavamo gli stessi stereotipi della società borghese, perché eravamo permeati fino al midollo dei suoi "valori", espliciti o sotterranei». Ciò vale, io credo, per ogni altro «apparato ideologico», dalla scuola ai sindacati. Proprio per questo fenomeno, del resto, si è venuta a creare, in generale nelle società attuali, quella situazione che Marcuse ha sintetizzato con la formula «fine dell'utopia»: ima situazione in cui le «forze produttive», a causa degli incredibili condizionamenti ricevuti, ncn sono più in grado — come nel disegno marxiano — di entrare in contraddizione con i «rapporti di produzione» esistenti, di produr\'i cioè una spinta rivoluzionaria. E' un circolo vizioso che stringe come una morsa. E il suo meccanismo, a ben guar¬ dare, si è ripetuto puntual I mente anche nelle nostre ele- I zioni del 20 giugno, che hanno 1 sancito per molti l'incapacità ' ad entrare «in contraddizio \ ne>. con la de. Possiamo spe i rare in un profondo — ma 1 davvero profondo — processo < di rinnovamento, «dalla testa j ai piedi»? Senza dubbio sì. Ma basta l'esempio delle diffi- j colta incontrate dalle donne ; — in loro stesse, oltre che -, nella società — nel liberarsi j della categoria-archetipo del | «sesso debole» (e quindi su I bordinato al maschile), per 1 farci capire quanto questo 1 cammino sia lungo e difficile. Carlo Sartori Francesco Cossiga prega: una razza de diversa?

Luoghi citati: Italia, Macondo