Il femminismo di un maschio

Il femminismo di un maschio MORAVIA E LE DONNE Il femminismo di un maschio In un recente libro sulla Mutazione femminile, Carla Ravaioli ha scritto che Alberto Moravia è un femminista convinto. Potrebbe anche essere vero: sicuramente accertabile è comunque che Moravia, in questi ultimi tempi, ha cambiato la sua prospettiva problematica. Una volta il protagonista dei suoi racconti era l'intellettuale, che viveva il proprio rapporto con la realtà soltanto nelle dimensioni della « noia » e dell'« indifferenza ». Oggi invece la vera protagonista dei suoi libri è la donna, che vive un rapporto più immediato — o anche solo più istintivo — con la realtà, nel tentativo (ossessivo) di chiarirsi la propria identità. In libreria, in questi giorni, è entrato un altro volume di Moravia; s'intitola Bob! e raccoglie trenta racconti, nei quali trenta donne narrano, in prima persona, una loro storia. Due anni fa, in Un'altra vita, si confessavano trentuno donne e, nel 72, nel Paradiso, era toccata la stessa sorte ad altre trentaquattro loro compagne. Ebbene, tutte queste donne moraviane, che unite potrebbero formare un rispettabile (e temibile) corteo femminista, danno invece la sensazione di volersene stare ciascuna per proprio conto, preservando il loro individualismo, anche quando hanno qualche velleità di rivolta. Davvero, la risposta di Moravia al femminismo sembra nascondersi sorniona nel titolo di questo ultimo libro, nella sua rude e popolaresca esclamazione dubitativa: « Boh! ». Le novantacinque donne di Moravia cercano tutte affannosamente una loro coscienza: tentano di identificarsi, di ritrovarsi, di riconoscersi in qualsiasi modello. « Tu sei cosciente, ti rendi conto di tutto, sai quello che fai e ciononostante lo fai. Ma allora a cosa serve la coscienza? », dice una di esse a una sua compagna; e la compagna risponde con candore: « Me lo domando anch'io. Probabilmente è più forte di me ». Il destino di queste donne è di rimanere in un perpetuo purgatorio di incertezze. Ma se la pagina di Moravia non costruisce un messaggio femminista positivo, offre tuttavia (dalla parte di un « maschio ») un generoso atto di denuncia. Queste novantacinque donne (generalmente belle e borghesi, spesso ricche e seducenti) gridano in pubblico la loro condizione di esseri « inferiori »: fuori della storia, ai margini della società. Relegate in un « harem », in cui vale soltanto la volontà del sultano (l'uomo marito 0 amante, fratello o padre), sono le vittime di una « violenza naturale », sacrificate sull'« altare » della « società dei consumi ». Lo scopre una di queste borghesi moraviane, sequestrata da una « gang » di « maschi » rapitori: « Lo scopo dei miei rapitori è di fare di me un oggetto da adoperare in tutti 1 modi, non soltanto in quello, diciamo così, fisiologico ». E allora si alza e rassetta la casa, prepara il caffè ai suoi nuovi padroni: come un robot a comando. Anche se è stata sottratta bruscamente al suo ambiente familiare, in fondo la sua situazione non è mutata. Il matrimonio borghese non è altro che un « rapimento » legalizzato: la casalinga è un « oggetto » (ben congegnato). Così come « oggetto » è quell'altra donna moraviana, dal « supercorpo », ex attrice del nudo, sposata ora al suo produttore (« mercante di carne umana » femminile) che la guarda con uno « sguardo misto di compiacimento e di dispetto », nel considerare « il suo "capitale" inutilizzato e infruttifero », fra le pareti domestiche. La donna paga più dell'uomo la frustrazione della civiltà consumistica: non ha altra soluzione al di fuori di quella di farsi essa stessa «prodotto» di consumo, di organizzare cioè la sua vita come vendita di se stessa, ad alto prezzo. C'è una «hostess» tra le eroine di Moravia che se «a bordo» è un «perfetto strumento di lavoro», «a terra» si tramuta «in merce in vendita»: «In volo sono un angelo in uniforme; a terra, una vetrina ambulante di anatomia femminile». Un'altra ragazza, bella e intelligente, segretaria efficientissima, pensa a questo modo: «La vita è una faccenda professionale e tutto deve essere assorbito, incorporato nella professione, cioè trasformalo in qualche cosa di professionale». La segretaria diventerà così l'amante del suo direttore, perché anche l'amore deve essere «depurato di qualsiasi intimità, inserito, incorporato nel lavoro». Tuttavia la soluzione di farsi prodotto, di divenire «oggetto», conserva per le donne di Moravia ancora la freschezza di una scoperta: non è acquiescenza per «indifferenza», né scelta per «noia». Se una vetrina attira, se le cose reclamano di essere comperate, perché non mettere in moto un meccanismo «commerciale» tanto semplice? «Già, avevo scoperto che possedevo qualche cosa che a me non costava nulla e per cui invece gli uomini erano pronti a pagare un giusto prezzo. Ma soprattutto avevo scoperto che tutta l'operazione, diciamo così, di compravendita poteva avvenire su un piano serenamente contrattuale, per cui potevo metterla in atto con assoluta tranquillità», dice una giovane disinvolta. L'antico intellettuale di Moravia era abulico: le sue donne sono invece frenetiche di attività. Predispongono piani e subito dopo li distruggono, mescolano sogni e realtà con noncuranza. Attendono l'evento e lo rifiutano quando capita; si lasciano vivere e poi capricciosamente cambiano o vogliono cambiare le loro situazioni: «Cambio non perché esaurisco le esperienze, ma perché, in fondo, non le faccio. Come cambia di posizione, continuamente, nel letto, chi soffre d'insonnia, ma non per questo riesce a dormire». Il vitalismo di queste donne è capriccioso: nasconde tuttavia la forza di una possibile rivolta; e rivolta è già la beffa spesso giocata a scorno di tanti uomini, «sultani» ma «babbei». La bellezza femminile è «una forza distruttiva, di cui non si conosce tutta la potenza incrollabile»: e la donna-prodotto può distruggere il sistema che l'ha determinata, esasperandolo. E' questo lo scatto di femminismo dei libri di Moravia: uno scatto in cui lo scrittore sembra aver trovato un nuovo stimolo vitalistico, per sentirsi, una volta di più, dentro i problemi del suo tempo. Ma non si può credergli fino in fondo: Moravia indossa, da sempre, le vesti del censore severo dei costumi borghesi, insieme a quelle del loro cinico sacerdote. Addita i costumi decadenti della società del benessere, ma ne rimane coinvolto. La rivolta possibile delle sue donne è ancora rimandata dalla nostalgia di coglierle in atto di strapparsi i vestiti e sdraiarsi, come le eroine di D'Annunzio, nei caldi canapés dei loro salotti aristocratici; o di osservarle — con attenzione — nelle loro morbide nudità, magari (come capitava in un racconto di Un'altra vita) sdraiate in una sala di museo, su «un letto ricoperto di velluto color granata sbiadito, circondato di quattro cordoni di seta». Moravia non rinunzia al suo privilegio di scrittore, al proprio dominio sui personaggi; non si rassegna ad accettarne, fino in fondo, le nuove proposte: le accomoda, anche a costo di snaturarle. E' la sua drammatica civetteria di «maschio» femminista. Giorgio De Rienzo