A colloquio con Enzo Biagi autore del "Signor Fiat,, di Enzo Biagi

A colloquio con Enzo Biagi autore del "Signor Fiat,, IL FATTO DI CUI SI PARLA: GLI AGNELLI A colloquio con Enzo Biagi autore del "Signor Fiat,, Lo scrittore parla del suo libro (che sarà in vetrina fra pochi giorni) sulP« avvocato » La candidatura, poi rientrata, di Giovanni Asnelli al pri, e quella, ancora in discussione, del fratello Umberto alla de, costituiscono il fatto politico del giorno in Italia. Al di là degli schieramenti dei partiti, esse hanno rappresentato il primo serio tentativo della classe imprenditoriale d'inserirsi integralmente nella vita della nostra società. Il loro valore sta nell'aver proposto, in termini nuovi, il problema della funzione del manager e del tecnico nello Stato moderno. Ad Enzo Biagi, scrittore e giornalista, e ai sindacati, interlocutori naturali della Fiat, abbiamo chiesto di commentare le figure e le decisioni degli Agnelli. (Dal nostro inviato speciale) Milano, 16 maggio. Enzo Biagi sta dietro una piccola scrivania, in un palazzo antico del centro di Milano. Nel cortile c'è un cartello che dice: «Per favore, parlate piano per non disturbare il lavoro degli uffici». Stavolta l'intervistato è proprio lui, di solito abituato a fare l'intervistatore. Ha scritto un libro dal titolo «Il signor Fiat», che è la biografa di Gianni Agnelli, per l'editore Rizzoli. Ne hanno già prenotato in Italia oltre 100 mila copie, i diritti sono stati ceduti all'editore tedesco Fischer, al francese Albin Michel, allo spagnolo Noguer; si sta trattando l'edizione in Usa. Un successo prima ancora di arrivare in vetrina. Il libro è il profilo di un «principe moderno». Mette insieme un mosaico di testimonianze sulla vita privata e la figura del grande imprenditore, riferisce pareri di amici e avversari. Non è un pa¬ negirico, né un libello, vuol essere un documento. Bene. Vediamo che cosa ne dice l'autore. Biagi si appoggia allo schienale, negli occhi sprizza un lampo furbesco. Come bersaglio di domande si trova a suo agio; ha idee che si traducono in immagini semplici, scoppiettano come epigrammi. Dice che ormai ha un'età in cui può essere «già abbastanza definito» e non si è mai truccato secondo le circostanze. «Ho badato alle cose — spiega — io sono un cronista. Lo erano, a loro modo, anche Balzac e Dostoievski. Fatte le debite distanze, beninteso. Siamo pieni di commentatori, manca la gente che raccolga i fatti e li esponga». E aggiunge: «Agnelli per la gente spesso non è un uomo, ma una tesi. Ci sono quelli che vanno in Russia per vedere se c'è il socialismo. Sarebbe come andare in Vaticano a vedere se sono tutti santi». Certo, ma fare una biografia di Gianni Agnelli adesso non è un po' seguire l'onda della moda? «Non è la prima biografia che faccio. Avevo capito che i tre italiani che contano sono Fellini, Ferrari e Agnelli. Fellini si racconta da solo con i suoi film: a suo modo è un grande giornalista; l'epica dei bolidi non la capisco, con tutto il rispetto. Agnelli ha il grande vantaggio per me di essere della mia generazione. Anche se noi il vestito alla marinara l'avevamo solo per la prima comunione. Ma abbiamo tante esperienze in comune. Ad esempio, io sono stato avanguardista come lui, ma lui è stato avanguardista cavalleggero. E poi è un uomo che ha dietro un'aneddotica. Non so fare dei libri o degli articoli se non ho delle vicende da narrare. Mi pare che dai fatti e dalle idee venga fuori una possibile verità». Una volta si scriveva su attrici, cantanti, calciatori, adesso su uomini politici e industriali. C'è un nuovo filone letterario. «Sì, perché la gente ha scoperto che l'economia la riguarda. La tecnica del rotocalco che si applicava alle principesse infelici o ai belli dello schermo adesso la si applica a Cefis e a Petrilli. Gli affari fanno notizia. Poi Agnelli non è soltanto il presidente della Fiat, appartiene ad una famiglia nella quale si ritrova l'Italia del '900 con i suoi alti e bassi. Ed è anche una famiglia abbastanza drammatica». Sorride, compiaciuto di questo suo nuovo soggetto. «E' anche un signore che, se va in giro per il mondo, sa stare a tavola. E' abbastanza favorito dal grigiore del nostro paesaggio. Non esistono grandi personalità». Il suo libro è svelto, interessante, si legge d'un fiato, anche se non ci pare che affronti nuove interpretazioni del personaggio. Su quali basi lo ha costruito? «Con molta pazienza. Ho lavorato un anno con persone che mi dicevano magari una sola cosa. I centralinisti, la segretaria. Tutta la famiglia. Gli amici e gli avversari. Ho letto tutto quanto è stato scritto. Sono andato anche a vedere dei vecchi "Luce" per cogliere immagini del nonno, il senatore. Ho avuto due lunghi colloqui con Gianni Agnelli». C'è qualcosa che non ha detto? «Non ho detto i nomi di certe donne che sono comparse nella sua vita perché non è indispensabile e perché c'è una spregiudicatezza che coincide con le cattive azioni». Non pensa che ormai per molti Gianni Agnelli sia un simbolo? «Lo è, indipendentemente dalla sua volontà. Dovrebbe rappresentare il meglio del capitalismo avanzato. E' un re, gli piace molto piacere». Qual è l'aspetto che lo ha più sorpreso nei suoi colloqui? «I suoi legami con i ricordi. Il peso che ha su di lui il passato, la tradizione». E quali difetti gli attribuisce? «L'incostanza, il bisogno di avere sempre attorno qualcuno che lo distragga, la valutazione sempre positiva del successo». Per molti torinesi gli Agnelli sono stati a lungo una «presenza invisibile»: la loro immagine, caso mai, arrivava ingrandita di rimbalzo. Da fuori, magari da certe riviste straniere. E adesso tutti ne parlano. Secondo lei, che colpe ha questo personaggio-simbolo? «Di essere arrivate in ritardo quando molti giochi erano già stati fatti e di non aver avuto abbastanza forza o volontà per cambiare. Ci sono delle soluzioni che mi sembrano superate. E il merito principale? «Quello di saper vedere l'Italia collocata nel mondo, di porre la sua azienda sempre in un contesto internazionale. Facendo l'inviato ho imparato più cose dai rappresentanti della Fiat che dai nostri ambasciatori». Enzo Biagi tira un sospiro: «Che bello dire quello che si pensa!». Ma lo riportiamo alla sua biografia del «signor Fiat» e ai rischi di scivolare attorno a una realtà senza coglierla perfettamente. Lui riconosce che è sempre difficile scrivere la vita di un contemporaneo. «Parli di una persona che gli altri conoscono e che vedono magari in modo diverso e lui stesso si vede in modo diverso. Per di più non è un politico in sneso stretto, quindi non identificabile con un'ideologia esatta, anche se avere dei soldi crea un certo punto di vista. Se faccio Zaccagnini ho alcuni pilastri che sono fermi. So che ci sono ancora dei de che credono in Dio, che immaginano una certa società. Oggi non si può dire che un industriale debba pensare solo ai bilanci, anche i problemi sociali lo riguardano. E con chi pensa di affrontarli? Con Berlinguer? Con La Malfa? Con quelli di piazza del Gesù?». Ma come uomo, un uomo di fronte a se stesso, che tipo le sembra? Nel libro gli attribuisce una frase eloquente: «Mi piace il vento perché non si può comprare». «Un uomo molto solo. Come i bambini che cantano quando vanno in una stanza buia. Ma è una definizione un po' semplicistica. Ha un bisogno frenetico di fare cose per riempire il tempo. E' imprevedibile. Non mi stupirei che, dopo tanto correre, fosse uno che si ferma a pensare». Usciamo, oltre il cortile silenzioso esplode il traffico di Milano. L'occhio, istintivamente, conta quante auto Fiat ci sono in quel tratto di strada. Ernesto Gagliano

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