I cardinali del Cremlino

I cardinali del Cremlino GLI ECONOMISTI INGLESI GIUDICANO IL "PIANO,, SOVIETICO I cardinali del Cremlino Sono i 500 uomini che contano nell'Urss, gli anziani "immutabili" - Saranno essi ad ispirare il successore di Breznev e la sua politica economica: tesa a conciliare le istanze consumistiche della gente con le ambizioni dell'apparato militare-industriale (Dal nostro inviato speciale) Londra, giugno. L'eredità più pesante che Leonia Breznev lascerà al suo successore sarà la gestione di un'economia che s'affida ancora totalmente al principio della direzione centralizzata in un Paese esteso, attraverso sei fusi orari, da Brest a Chabarovsk e dal Circolo Polare Artico al subcontinente indiano. In qualunque momento la successione abbia luogo, nell'arco dei prossimi cinque anni, e chiunque sia il prescelto, questi avrà l'ingrato compito di riuscire laddove Breznev ha fallito: cioè, nel realizzare con successo un piano che concili le crescenti istanze consumistiche della popolazione con le mai dome ambizioni del complesso militareindustriale, e sempre condizionato, fino all'ultimo semestre, da un'agricoltura vittima dei capricci del tempo perché tecnologicamente sottosviluppata. Nella sua cella monacale, al St. Antony's College in Oxford, arredata quasi soltanto con le ingombranti bozze di un nuovo libro sull'economia sovietica, il pro¬ fessor Alee Nove mi spiega perché il decimo piano quinquennale 1976-1980 è, insieme, modesto e difficile da realizzare; e, quindi, perché il compito dei successori di Breznev appaia molto arduo. « Il piano è modesto — dice Nove — perché tutti i tassi di sviluppo sono stati abbassati al di sotto dei risultati raggiunti con il nono piano. Perciò, potrebbe anche sembrare un piano realistico. Ma è di difficile realizzazione per diverse ragioni. La prima è una certa scarsità di materie prime fondamentali, soprattutto nel campo energetico, almeno in rapporto agli obiettivi proposti. La seconda è la situazione esterna, cioè il deficit commerciale contratto nel 1975 e destinato ad aumentare nel 1976. La terza è la drammatica situazione della agricoltura. La quarta è la mancanza di manodopera per la permanente crisi demografica ». Ogni discorso economico ha, nell'Unione Sovietica, connessioni così strette con la politica e l'ideologia che esso può essere usato come parametro ideale per una va- | lutazione del periodo brezne- | Viano e delle tendenze che potranno svilupparsi nella leadership post-brezneviana. Secondo Leopold Labedz, di- j rettore della rivista trimestrale Survey, l'eccezionale ' stabilità e longevità dell'attuale gruppo dirigente (l'età media del Politbjuro, ricordiamolo, supera i 66 anni) è costata al Paese un altissimo prezzo socio-economico. Nel tradizionale dilemma sovietico, tra l'illuminismo dei dirigenti e la forza conservatrice dell'«apparato», Breznev, afferma Labedz, ha privilegiato quest'ultima perché la storia dimostra che i riformatori, i quali hanno voluto combattere l'« apparato », hanno sempre perso: « Trockij fu sconfitto da Stalin, Malenkov da Kruscev. Lo stesso Kruscev, quando s'alienò gli apparateiki, spianò la via alla presa del potere da parte di Breznev ». Ma la scelta brezneviana ha portato ad un « congelamento dei problemi », poiché l'« apparato » è diventato un ostacolo allo sviluppo delle riforme. Il raccordo con il discorso economico è, a questo punto, di facile reperi- | mento: la prima vittima è j ' stata proprio la riforma economica del 1965, la cosiddetta « riforma Kossighin », praticamente bloccata dal 1971, anche se ufficialmente è ancora viva e operante. In gennaio, Aleksandr Birman, uno dei suoi padri fondatori, mi aveva detto che « la riforma non si può sopprimere, così come l'uomo non può smettere di respirare ». Ma nei discorsi pronunciati in febbraio, al 25° Congresso del Pcus, non ne è stata fatta menzione. « La mia impressione — dice Alee Nove — è che la riforma non sia finita del tutto, ma che venga mandata avanti in modo diverso. La riforma del 1965, così come viene interpretata in Urss, soffre di contraddizioni interne. Per realizzarla veramente, avrebbero dovuto avere il coraggio d'andare oltre. Ma, poiché tale coraggio non c'è stato e non c'è, l'idea d'aumentare l'autonomia dei managers non può funzionare, mancando altri indispensabili mutamenti strutturali. Proprio Aganbegjan (uno dei più giovani economisti riformatori,n.d.r.) ha scritto sulla Pravda, non molto tempo fa, che i managers continuano a ricevere direttive vincolanti in materie nelle quali dovrebbero avere libera scelta ». Sotto questo aspetto, la riforma ha dato molto poco, né potrebbe dare di più per un insieme di ragioni politiche, ideologiche e anche solo economiche. «Ci sono genuine ragioni politiche — continua Nove — per non abbandonare quella che Kossighin chiama "direktivnoe planirovanie"; il piano deve dire ai managers tutto quello che essi devono fare. Questa è l'essenza del sistema e se da essa si discostano, potrebbero avere serie difficoltà per imporre nuovamente un certo grado di controllo. Eppoi, ci sono ragioni economiche obiettive, la più semplice delle quali è l'impossibilità di proclamare un mercato libero». Breznev ha cercato un surrogato della riforma: anziché migliorare la gestione, ha voluto aumentare l'efficienza dell'economia attraverso l'importazione di tecnologie occidentali. Ma questo trapianto non è del tutto riuscito. In parte, perché la distensione economica si è quasi bloccata subito dopo essersi messa in marcia. In parte perché — mi dice il professor Léonard Schapiro, della London School of Economics — « non basta importare tecnologie dall'Occidente; occorre anche poterle adattare alla macchina economica sovietica e questa operazione s'è rilevata molto più difficile del previsto ». Inoltre, l'aumento verticale dell'indebitamento con l'Occidente — dovuto soprattutto all'acquisto di cereali per i due infelici raccolti del 1972 e del 1975 — ha imposto un freno alle importazioni dell'Urss. Quella dell'economia è una delle riforme impostate, e non portate a termine, nel periodo brezneviano: un'altra è quella della costituzione, più volte proposta dallo stesso Breznev, ma senza successo. E altri problemi ancora sono stati procrastinati, o affrontati — come direbbero i comunisti italiani — « con metodi amministrativi », che non hanno portato alcuna soluzione: le inquietudini nazionali, ad esempio, e l'insoddisfazione deH'intelligencija, che si riconosce sempre meno nella leadership politica. I successori di Breznev sapranno avviare quel processo di rinnovamento che egli, e soprattutto i suoi colleghi della « direzione collegiale », non hanno voluto, o potuto, realizzare? Le risposte raccolte sono unanimemente negative. Secondo Alee Nove, neZZ'élite sovietica non s'intravede alcuna tendenza riformista. « In campo economico, ad esempio — osserva — se proprio si vuol tracciare una divisione, si può dire che, da un lato, vi sono i conservatori, i "duri" che vogliono aumentare soprattutto la disciplina; e, dall'altro, vi sono i "progressisti", come sembra sia Kirilenko, che vorrebbero incrementare il ruolo degli economisti matematici, ma soltanto per poter centralizzare ancora di più la direzione dell'economia ». I fattori, come si vede, possono essere diversi, ma il prodotto non cambia. In effetti, studiando le biografie dei cinquecento uomini che contano nell'Unione Sovietica, si ha l'impressione di una strordinaria uniformità sociale ed anche anagrafica, che, sul piano politico-ideologico, si traduce in un'uniformità di tendenze. « Sono un collegio di cardinali ». osserva Labedz, il quale ricorda che gli ultimi massicci mutamenti nella struttura dell'elite sovietica risalgono agli Anni Trenta-Quaranta. Le purghe staliniane, prima, e la seconda guerra mondiale, poi, avendo deci¬ mato le file del partito, provocarono un radicale rinnovamento. Ma, dopo quei due tremendi sismi, non vi furono che scosse d'assestamento minori. Gli uomini che detengono il potere oggi, appunto, sono coloro che erano emersi, o sopravvissuti, dopo le purghe e la guerra. Il recente 25" Congresso del partito, dal quale ci si attendeva un certo rinnovamento, ha invece confermato, anzi esasperato, questo immobilismo. Come nota Schapiro, esso ha soprattutto rafforzato la presenza dei funzionari del partito nel Comitato centrale attraverso l'inclusione di quasi tutti quei dirigenti locali (i primi segretari d'oDkomy, i comitati regionali del pcus), che, proprio per ragioni d'età, sembravano destinati a concludere la loro carriera in periferia. La cooptazione nel Comitato centrale ha invece dato loro una patente d'immutabilità per cinque anni almeno, in quanto lo statuto del partito stabilisce che la composizione del Comitato centrale può essere modificata soltanto da un congresso. Il risultato è che, ora, l'età media del « parlamento » del pcus è di 60.2 anni, la più alta di tutta la storia della Russia sovietica. All'inizio degli Anni Sessanta, l'avvento di alcuni dirigenti giovani ed ambiziosi al vertice del partito aveva fatto prevedere un imminente mutamento di generazioni nella gerarchia, e alcuni avevano profetizzato che tale mutamento avrebbe significato una liberalizzazione del regime. Fu una previsione errata: quelle forze nuove — figlie, in grande misura, dell'improvvisazione krusceviana — sono state progressivamente emarginate dalla restaurazione brezneviana proprio perché rappresentavano un pericolo per l'immobile stabilità della leadership. Prendiamo due casi esemplari: Aleksandr Shelepin e Dmitrij Poljanskij. Entrambi arrivati giovanissimi nei due massimi organismi collegiali del partito (Shelepin alla segreteria a 43 anni, Poljanskij al Politbjuro a 41), entrambi riformisti, ancorché in direzioni completamente opposte: Shelepin, l'unico dei leaders sovietici ad avere una preparazione umanistico-letteraria, anziché tecnico-scientifica-filo-occidentale e, a suo modo, progressista; Poljanskij, invece, fervente slavofilo, nazionalista panrusso. Entrambi avevano scoperte ambizioni di potere: i loro nomi compaiono in tutte le « congiure di palazzo », più o meno reali, individuate dagli osservatori negli ultimi dodici anni. Ora, Shelepin, escluso anche dal Comitato centrale, starebbe scrivendo le sue memorie in una dacia di campagna (ma, per pubblicarle, dovrà affidarle ad un editore occidentale, come Kruscev). Poljanskij, rimasto inspiegabilmente nel Comitato centrale dopo tutta una serie di degradazioni, è finito ambasciatore a Tokyo. Emarginati i perturbatori del quieto immobilismo, l'elite sovietica si prepara dunque alla successione di Breznev, che sarà presumibilmente una successione di uomini, ma non Ri tendenze. Il rischio di questa conservazione esasperata — dice Labedz — è che il Paese diventi, con il passare del tempo, una caldaia in ebollizione di problemi irrisolti (ne abbiamo individuati tre: l'economia, la questione nazionale e l'insoddisfazione intellettuale). «E, in questi casi, la storia insegna che l'unica valvola di scarico è l'espansionismo in politica estera », conclude Labedz. E' una previsione allarmata e drammatica che non si può certo trascurare. Tuttavia non è detto che si debba condividerla appieno. Sei anni di vita nell'Urss ci hanno insegnato che il Paese assorbe assai bene (e, comunque, meglio dell'Occidente) le tensioni interne. L'assenza di una libera dialettica e la tradizionale capacità di sopportazione del popolo russo sono fattori sui quali il potere sovietico sa di poter contare. Paolo Garìmberti