I martiri e i "kapò" di Giovanni Bogliolo

I martiri e i "kapò" Pagine dolenti sulla condizione ebraica I martiri e i "kapò" Jacob Presser: «La notte dei Girondini », a cura di Primo Levi, Ed. Adelphi, pag. 113, lire 3000. Peter Schwiefert: « Con le ali spezzate », a cura di Claude Lanzmann, Ed. Rizzoli, pag. 166, lire 3000. Un ebreo che diventa a guzzino dei suoi fratelli perseguitati e un non credente che sceglie lucidamente la strada dell'ebraismo nel momento in cui essa significa esilio, privazioni e morte: nello spazio che separa questi due destini estremi si consuma nel silenzio di milioni di coscienze quella «crisi d'identità» che è uno degli aspetti meno noti e più sconvolgenti della tragedia degli ebrei sotto il nazismo, di un popolo cioè che da secoli, soprattutto in Occidente, viveva «teso e disputato tra i due poli della fedeltà e dell'assimilazione» e si trovava meno di qualunque altro preparato a subire la più spaventosa e la più folle tra le persecuzioni della storia. In questa crisi di identità, che giustamente Primo Levi propone come chiave di lettura dello sconcertante racconto di Presser, l'imperativo della sopravvivenza fisica individuale sembra prevalere su ogni altra istanza morale e civile: il denaro, la prostituzione, la delazione, l'abiura offrono l'illusione di una salvezza almeno tempora¬ nea, l'attiva complicità coi persecutori, un più consistente salvacondotto. La figura dominante di questa Notte dei Girondini (un titolo antifrastico: è proprio la dignità dei Girondini di fronte al patibolo quella che manca agli ebrei olandesi ammassati nel campo di Westerbork) non è tanto il debole protagonista Suasso Henriques che diventa kapò e si riscatta con un gesto di tardiva ribellione, quanto il suo maestro di vita Siegfried Cohn che basa la propria incolumità sulla ferocia di cui sa dar prova nei confronti degli altri ebrei e rispolvera l'antisemitismo ebraico di Weininger. Quel che scandalizza nell'apologo di Presser è l'impietosa rappresentazione delle miserie morali che l'universo concentrazionario mette a nudo, l'analisi anche troppo compiaciuta e partecipe di tutte le debolezze e le compromissioni delle vittime. L'amara epigrafe Homo nomini homo aggrava questa impressione di condanna generalizzata, ma non va dimenticato che lo storico Presser stava documentandosi per la sua grande opera sullo sterminio degli ebrei olandesi e che questa fugace evasione nella narrativa l'ha concepita e sofferta come un auto da fé, come una liberazione da quell'«insopprimibile senso di colpa die tutti i superstiti prova- no» di fronte a chi ha pagato anche per loro. Di ben altro respiro — morale e letterario — è la testimonianza di Peter Schwiefert. Se nel giudicare gli squallidi personaggi di Presser dobbiamo fare appello all'unica possibile attenuante proposta da Levi che «la coscienza generalizzata che davanti alla violenza non si cede, ma si resiste, è di oggi, è del dopo, non di allora», la lucida visione storica e il sereno rigore morale del giovane tedesco risaltano in tutta la loro eccezionalità. Figlio di un cristiano e di una ebrea, senza essere né credente né sionista, di fronte allo scatenarsi del nazismo, sceglie di vivere la componente ebraica della propria identità così come si sceglie il partito della giustizia contro quello della sopraffazione. Alla sua scelta non sono estranee motivazioni affettive inconsce, ma proprio da esse dovrà subire le più crudeli delusioni: la madre dilettissima, perseguendo un suo concreto disegno di salvezza, si converte alla religione ortodossa e contrae un matrimonio bianco con un bulgaro. Le lettere che Peter scrive alla donna che si ostina a non capire il pericoloso capriccio del figlio, ma si schermisce costantemente di fronte a un diretto confronto di opinioni che potrebbe far vacillare il suo pragmatismo, sono un capolavoro di tenerezza e di fierezza: non una parola di rimprovero, ma solo un disperato sforzo di comprensione e un inascoltato invito al dialogo; non una parola di lamento, ma solo accenni ottimistici alle sue disastrose esperienze di esilio. Fino a questo punto il veleno del nazismo ha sconvolto l'equilibrio dei valori, ha offuscato i criteri di giudizio e ha suggerito le risposte più contraddittorie e ambigue all'appello della presa di coscienza: per tre anni, prima dal Portogallo e poi dalla Grecia, un giovane intransigente e coraggioso è costretto a difendere la sua scelta di libertà non solo dagli agguati di una vita precaria, ma dai rimproveri e dalle accuse della persona più cara. Poi c'è il trauma e il lungo silenzio della guerra, combattuta come volontario nell'esercito della Francia libera, e un'ultima lettera-testamento che è tra i documenti più belli e strazianti di tutta la letteratura della Resistenza europea. Alla madre superstite, troppo tardi consapevole che il figlio ribelle aveva saputo «non soltanto scrivere belle parole, ma rischiare la vita per il proprio ideale», resterà la coscienza del proprio fallimento e, nel rimorso, l'esatta percezione della catastrofe inconsapevolmente vissuta: vittima lei stessa e complice incolpevole di quel mostruoso progetto omicida che dove non ha distrutto la vita ha subdolamente contagiato e avvelenato le coscienze. Giovanni Bogliolo

Luoghi citati: Francia, Grecia, Portogallo