Il pittore in vetrina di Renato Barilli

Il pittore in vetrina CAMBIANO LE GALLERIE Il pittore in vetrina Sono finiti i tempi quando il visitatore che entrava in una galleria d'arte, pubblica o privata, sapeva già cosa lo aspettava: quadri appesi alle pareti, più o meno grandi, più o meno aggressivi nelle loro forme, ma pur sempre debitamente recintati da un listello o addirittura da una cornice. Ora invece le pareti molto spesso sono vuote, e i materiali se ne stanno accumulati dappertutto tranne che su di esse: nel pavimento, nel soffitto... Né è detto che ci sia qualcosa di visibile: può darsi che lo spazio sia animato soltanto da onde sonore, o che l'artista pretenda di impregnarlo esclusivamente con una presenza mentale. Sarebbe lungo fare la storia dei vari passi che, in una escalation inesorabile, hanno portato a questo stato di cose. Lasciando perdere le avanguardie storiche, e tra esse il gran padre di tutte le innovazioni attuali, il dadaismo di Duchamp e Compagni, ci si potrebbe ricollegare ai primi Anni 60 di Rauschenberg, perché questo artista statunitense proponeva un curioso gioco tra il « dentro » e il « fuori »: partiva cioè da una superficie tale da fare ancora « quadro », seppur ricoperta di macchie cromatiche violente e di banali ritagli di giornale. ★ * Ma quella superficie poteva essere montata su uno chassis provvisto di rotelle, e quindi andarsene a spasso per la galleria staccandosi inesorabilmente dalla parete; oppure poteva recare, appesa con una catena, qualche appendice « vera », per esempio una sedia poggiante sulle sue quattro gambe, o un secchio stanziato quasi al centro della sala. Altri, venuti dopo Rauschenberg, usano materiali sempre più voluminosi e sporgenti: feltri cascanti, strisce di cuoio (Bob Morris, Richard Serra), oppure tubi al neon (Dan Flavin); e neanche male finché questi tubi mantengono una forma rigida, tale da assecondare la costituzione cubica di una stanza. Ma successivamente un gruppo di artisti torinesi legati all'« arte povera » si danno a piegare i tubi al neon in mille modi, ricavandone una specie di scrittura capricciosa e snodata (Mario Merz). Dal neon poi è facile passare alla resistenza elettrica resa incandescente (Zorio), o al serpentino frigorifero, ottenendo il bellissimo effetto di una brinata artificiale (Calzolari). E infatti i nuovi strumenti dell'artificio tecnologico vengono posti in dialettica con gli elementi di natura: foglie, sassi, terra, pelli animali. Ma in tutti questi casi, almeno, viene usato un materiale inorganico che con un po' di buona volontà potrebbe essere ricondotto alla misura della plastica, cioè della scultura. Il massimo aflronto alle buone norme tradizionali è compiuto quando nello spazio della galleria si asside l'artista stesso, deciso a comportarsi col proprio corpo, dando luogo a brevi sketcbes, azioni, pantomime elementari. Il corpo a sua volta può essere presentato a nudo, con la tentazione frequente, in tal caso, di sottoporlo a prove di tortura e di farne sprizzare sangue; oppure può divenire l'oggetto di operazioni di trucco e di trasformismo; oppure ancora può scivolare nei panni di altri personaggi, del mito, della storia, del folclore. ★ * Più che continuare ad accumulare esempi, conviene ora porsi l'interrogativo di fondo: perché questi mutamenti così vistosi? La risposta migliore è offerta da un libro finalmente tradotto anche in italiano, con molto ritardo rispetto alla sua prima uscita: ha galassia Gutenberg, del canadese Marshall McLuhan. Questo volume ci obbliga a una riflessione fondamentale: il supporto piano, di formato più o meno rettangolare, in cui consiste il « quadro » (e il nome stesso è già molto indicativo), non costituisce affatto un'entità naturale, sospesa fuori delle leggi del tempo, ma al contrario risponde a ragioni storiche, sociali, tecnologiche ben precise, a loro volta legate al successo travolgente della « stampa » a caratteri mobili, cioè appunto alla grande invenzione di Gutenberg. La pagina stampata, dal Rinascimento in poi, diviene il principale strumento di comunicazione dell'uomo occidentale, perché è comoda da consultare, facilmente riproducibile e a basso prezzo. Sulla sua falsariga si modella ogni altro mezzo di comunicazione, com¬ presi quelli in uso nelle arti visive. In particolare, ciò segna il successo del quadro da cavalletto, molto prossimo alla « pagina » gutenberghiana, anche se un po' più ingombrante e quindi meno maneggevole. E bisogna poi svolgere la riflessione concomitante che per lunghi secoli non ci sono altre possibilità per conservare i valori sensibili, luci e colori, se non di fissarli in qualche tratto lineare o in qualche macchia cromatica: i quali inevitabilmente operano dolorose riduzioni, lasciano filtrare solo una piccola parte dell'originaria consistenza degli oggetti, ma almeno, quel poco che ritengono, lo conservano in modo duraturo. ★ ★ Ora invece disponiamo di ben altre modalità di comunicazione, oltre la stampa: di tutte quelle che si esercitano via etere attraverso le onde elettromagnetiche, coi sistemi radiofonici e televisivi, e che possono essere facilmente conservate nei nastri. Tutto ciò influisce profondamente sugli artisti almeno in due modi, uno dei quali traslato o simbolico, l'altro diretto o concreto. Dal primo punto di vista, l'artista, per vie magari inconsapevoli e irriflesse, è pur toccato e sconvolto dal fatto che le onde elettromagnetiche, come dice la parola, sono « onde », godono cioè di una diffusione sferica, coinvolgente, e non piana; ecco quindi che si sente portato a occupare lo spazio nella sua piena tridimensionalità, disponendo a raggiera i materiali impiegati, quasi per visualizzare attraverso di essi la diffusione concentrica di quelle entità impalpabili così bene sfruttate dalle normali vie di comunicazione. Dal secondo punto di vista, concreto o diretto, l'artista si trova a disporre, oggi, di straordinari mezzi di conservazione, dato che i video-nastri e i film fissano, fino all'ultima piega, tutte le sfumature che si danno nei vari regni sensoriali: in quello della visività, c'è modo di fotografare o di registrare tutti i cangiantismi e umori di pelle; in quello acustico, ogni rumore, ogni fruscio o soffio può rimanere per sempre; e la visione e il suono congiunti possono rendere perfettamente anche la tattilità (il grande assente continua ad essere l'olfatto, che a tutt'oggi non conosce sistemi di conservazione). Ecco perché l'artista si può permettere di lavorare con le infinite inflessioni del proprio corpo, o con i cangiantismi dei materiali più disparati: non tocca più a lui « fissare » quelle meraviglie estetiche, economizzarle bloccandole entro un segno o una macchia di colore; a tale compito provvedono i mezzi tecnici del film e del video-nastro. Il suo compito specifico è di provocare i fenomeni estetici, di divenirne il regista, piuttosto che di metterli in conserva, squadernandoli poi, mummificati, sulle pareti della galleria. Renato Barilli