America amata America amara

America amata America amara STORIA DI UN MITO America amata America amara Intenzionale o no, la scelta dell'argomento cui è dedicata la più recente « Memoria » dell'Accademia dei Lincei non potrebbe certo essere più tempestiva. Al culmine delle celebrazioni del bicentenario dell'indipendenza americana, a poco più di un mese dall'anniversario di quella Dichiarazione in cui le Colonie ribelli proclamavano al mondo come « verità di per sé evidenti » i diritti inalienabili dell'uomo, la folta monografia del dott. Piero Del Negro richiama, per il titolo stesso {Il mito americano nella Venezia del Settecento) l'interesse non dei soli eruditi. Titolo suggestivo, a tal segno da ridestar nella mente, di primo acchito, un ricordo che potrebbe esser fuorviante, quello degli stupendi affreschi del veneziano Giambattista Tiepolo, nel palazzo del principe-vescovo di Wurzburg, dove, accanto agli altri continenti, l'America è rappresentata da formose fanciulle dalle chiome incoronate di piume, circondate da animali esotici, alligatori, pappagalli variopinti, squamosi armadilli. Che ancor in pieno Settecento « americano » equivalesse a « selvaggio » non soltanto per i civilissimi Veneziani ma per la maggior parte degli Europei, lo conferma d'altronde l'interessantissima mostra allestita nei mesi scorsi a Washington, intesa appunto ad illustrare la « Visione Europea dell'America », e ad un tempo il flagrante divario fra la realtà e l'immaginazione del Nuovo Mondo, oltre che nella rappresentazione letteraria già ampiamente esplorata, anche in quella figurativa. Questa deformazione favolosa, questo « mito » dell'America, erano stati alimentati per secoli da smodate speranze e da amare delusioni: si intrecciavano in quel mito, insieme all'illusione di una ritrovata innocenza, assurde fantasie, insoliti spaventi e ataviche paure. Poi, proprio al momento in cui la verità si veniva sostituendo all'inganno, ecco d'improvviso il mito rinnovarsi, in chiave non più geografica ma ideologica — come mito della libertà politica, dell'eguaglianza, della democrazia. E' questo mito che il Del Negro ha fatto oggetto della sua ricerca, ricostruendo attraverso ad un'attenta lettura dei periodici e di altri documenti dell'epoca le reazioni destate a Venezia dagli avvenimenti americani ed i giudizi recati su di essi dai contemporanei: giudizi profondamente contrastanti, che vanno dalla recisa condanna della Dichiarazione d'Indipendenza come un tessuto di « massime false, insussistenti, abborite ne' saggi Governi », all'auspicio che la nuova repubblica costituisca « un asilo per la libertà, una contrada, in cui gli uomini sieno tutti eguali, tutti liberi, e tutti felici, quanto esser lo possono nell'ordine Sociale ». Nella vecchia repubblica ormai fatiscente, ma per tanto tempo additata quale modello di saggio governo, le idee nuove sembran sottolineare con maggior crudezza la divisione degli animi: il mito americano si rivela per quello che sarà destinato a divenir d'ora innanzi, un segno di contraddizione. Per ben duecent'anni infatti questo mito, questa rappresentazione passionale, e quindi « non vera », dell'America, o più esattamente degli Stati Uniti, non ha cessato di assillarci qui in Europa. E senza importunare l'innumerevole schiera degli interpreti che nel corso di quegli anni hanno creduto di poterci svelare il vero volto della « Nuova Nazione » (e di essi alcuni, come Tocqueville, sono diventati dei classici) basta riandar col pensiero alle vicende di quest'ultimo mezzo secolo per rendersi conto di quanto abbia potuto variare, e di quali contrasti abbia potuto esser suscitatrice, l'immagine dell'America nell'arco di due sole generazioni. America primo amore — America amara: i titoli di due libri usciti nell'intervallo fra le due guerre potrebbero esser presi a simboleggiare i due poli entro i quali si son dibattuti e si dibattono tutt'ora i nostri confusi sentimenti circa il messaggio che ci vien d'Oltreoceano e circa la sua rilevanza per noi Europei. Direi che l'impatto più diretto di quel messaggio, la presa più forte del mito (tralasciando quella esercitata sugli umili negli anni della grande emigrazione) si pw«ou situare all'indomani de* orima guerra mondiale. Cei , le speranze alimentate dall'intervento americano e dai « quat¬ tordici punti » di Wilson furon solo parzialmente mantenute, e, quando lo furono, non si può dire che abbian sortito effetti particolarmente felici. Ma ciò non toglie che gli Anni Venti e Trenta recano chiari segni dell'influenza americana, influenza che si esercitò non soltanto attraverso alla letteratura e alle scienze, ma anche e non poco attraverso a quel nuovo e potentissimo mezzo di comunicazione di massa che fu il cinematografo. A dispetto del conformismo imperante, e nonostante la crisi economica che la sconvolse, l'America diffuse anche presso di noi in quegli anni un suo particolare stile di vita: un'America vista come modello del futuro cui potevano volgersi per ammaestramento ed incitamento gli stanchi ed oppressi Europei. Un po' di quella brezza frizzante che Soldati descriveva nel suo libro come prima impressione d'America parve soffiare anche sulla Penisola e diffondervi « la speranza, la certezza di rinnovarsi, di ricominciare». * * Ma quello che nell'entusiasmo del suo « primo amore » Mario Soldati non seppe o non volle vedere, lo videro pochi anni più tardi con penetrante chiarezza altri visitatori meno disposti a lasciarsi ingannare dalle apparenze. L'America di Emilio Cecchi, come quella di Guglielmo Alberti, è un'America « amara », un'America che trae l'illusione della felicità e della sicurezza dal suo benessere e dal suo progresso tecnico, ma che cela nel profondo della coscienza un vuoto incolmabile e « una segreta paura ». Un giudizio severo, forse troppo severo, e che se non venisse da critici avveduti saprebbe anche non poco di luogo comune. Ma giudizio da tener presente per intendere e per spiegare le vicende più recenti del mito americano, le ragioni per cui quel mito ha finito per infrangersi e difficilmente sembra possa mai ricomporsi nella luce sinistra delle circostanze attuali. Come ha potuto l'entusiasmo con cui vennero accolte le truppe americane al momento della Liberazione tradursi così presto nel Yank go home? Per quale metamorfosi l'Americano soccorrevole e generoso di quegli anni è diventato, agli occhi di tanti, l'ugly American, l'Americano brutto e cattivo? Perché l'oratoria smagliante di un Kennedy suona cosi retorica oggi ai nostri orecchi dopo averci tanto commosso solo pochi anni addietro? Sono domande che uno ha quasi vergogna di porre, tanto è facile la risposta, tanto gravi ed evidenti sono gli errori, tante le colpe di una grande nazione che si è giocato in pochi decenni un capitale accumulato da secoli, che costituiva, appunto, il mito americano. Di quegli errori, di quelle colpe non è chi non conosca il nome: si chiaman Maccartismo, Vietnam, Cile, Watergate — e l'elenco è lungi dall'esser completo. Ma che questo elenco non sia solo presente ai nostri occhi, ma anche a molti dall'altra parte dell'acqua, è ciò che non dovremmo dimenticare nel recare il nostro giudizio sul mito americano e sulla sua fine ingloriosa. A differenza di altri popoli che volta a volta l'hanno posseduto, il potere non sembra aver liberato interamente gli Americani da un certo loro patetico complesso d'inferiorità: sembra anzi aver aggiunto un motivo di ulteriore tormento in quegli animi disperatamente alla ricerca di certezza, di approvazione, di simpatia. Alcuni anni or sono, in treno fra New York e Boston, mi avvenne di soprendere una conversazione fra due giovani e un vecchio. Dei giovani, l'uno tornava a casa al termine del servizio militare, l'altro stava per iniziarlo. Udii il primo dar vari consigli al secondo, e poi, per finire, augurargli di non esser mandato a servire in Europa, « perché », disse, « là non ci posson soffrire ». Al che intervenne il vecchio, dicendo che bisognava non farci caso, perché il destino dei popoli potenti era sempre stato quello di esser odiati: era successo agli Inglesi al colmo della gloria, ed ora era naturale succedesse agli Americani. Giunto a destinazione, riferii quella conversazione al mio ospite, un uomo di squisita cultura e civiltà. Il suo commento fu breve e puntuale. « Già », disse, « ma c'è una differenza. Agli Inglesi non gli importava. A noi sì ». A. Passerin d'Entrèves