Il sigaro toscano di Lorenzo Mondo

Il sigaro toscano Tra i narratori dell'Ottocento Il sigaro toscano Narratori toscani dell'800, a cura di Giorgio De Rienzo, Ed. Utet, pag. 942, lire 17.000. Un luogo comune della narrativa toscana dell'Ottocento, quale viene antologizzata dopo generose e attente letture da Giorgio De Rienzo, è quello del governo granducale torpido, bigotto, angusto fin che si vuole, ma benevolo e conciliante, garante di un immobilismo che, di fronte all'incomposta accelerazione dell'unità italiana, poteva sembrare civile ordinamento. La vita del fiorentino era regolata come un cronometro dal Granduca che, suonate le undici, «gli spengeva i lumi nella strada e lo mandava a dormire; perché così avesse tutto il comodo di sognare a benefizio della I. e R. Amministrazione del lotto » (Lorenzini). L'emblema più ricorrente della « Toscana felix » è il sigaro, che un tempo si pagava due quattrini « ed era buono ». « Oh, i bei tempi! I bei tempi!... — poteva riassumere sarcasticamente Mario Pratesi —. Allora nessun sigaro in Europa poteva competere col sigaro toscano da due quattrini, allora cinque paoli un baril di vino, e che vino! Allora minime le imposte, gl'impiegati tutti onesti; e se a Stenterello si permetteva d'esilarare il teatro con equivoca ottava, se anche si permetteva un po' di prostituzione schizzinosa, delicata, dissimulata ma filtrante, segreta, tutto questo però era sempre coperto, bisogna dirlo, da una gran decenza, da un gran decoro civile ». I limiti provinciali si esprimono anche nella diffidenza pei gli orizzonti troppo aperti, in una sedentarietà di ordine mentale, quand'anche non manchino esperienze di viaggio, giornate avventurose e guerresche. E' una situazione esemplificata da Guido Nobili, che parla di sé bambino, ma con l'aria di ripetere parole di grandi: « La Patria per me è, con Firenze nel mezzo, Monte Morello come confine da una parte, i poderi e i boschi dell'Inipruneto da quell'altra, e Vallombrosa dalla parte che si leva il sole; la Patria, come la vedo io, finisce qui... ». De Rienzo, nella sua analisi, va più avanti, mettendo in risalto il dilettantismo di questi scrittori, l'impronta che traggono spesso dal narrare a veglia, dal presupporre il pubblico solidale del caffè o della farmacia: e la coscienza di una tradizione linguistica superiore serve da puntello all'ormai lunga decadenza di una regione e di una cultura. Intendiamoci, non è che manchino pagine vive e feconde anche nei minori e corrivi. Il capitolo del Fucini sull'abbietta fossa comune nel cimitero di Napoli, mentre sembra risospingerlo a diporti e chiacchiere in padule, riesce pur sempre a una vigorosa denuncia sociale. E nella storia di Fiorella che impazzisce perché il moroso va soldato, a saper leggere oltre lo smemorante fatalismo insufflato dal Fucini, sono i fatti che gridano, avvertiamo il trauma della coscrizione obbligatoria presso popolazioni contadine che da secoli ne erano disavvezze. Nella fiaba francamente conservatrice del Pelosini (una riproposta che dobbiamo tutta a De Rienzo), se non persuade il vagheggiamento di un improbabile granducato travolto dalla rivoluzione, è autentico lo sconcerto suscitato dall'attestarsi di nuovi egoismi, nuove intolleranze, nuovi accomodamenti della coscienza. E certo tono casereccio, che persiste nel Bandi o nel Checchi, i garibaldini, vale, come è stato osservato, a diseroicizzare avvenimenti e persone, a sottrarli al rischio di una frigida e mediocre statuaria. Ma, non potendo dare soverchia importanza all'esperienza dei pittori macchiaioli, quale si espresse direttamente nella scrittura (Caricaturisti e caricaturati al Caffè Michelangelo, di Telemaco Signorini), non trovando accertati e validi riscontri nella narrativa contemporanea, i punti di grazia e di forza di questa antologia passano per i testi, dati qui integralmente, delle Memorie lontane di Guido Nobili, dell'Eredità di Pratesi, del Pinocchio collodiano. II rilievo del Nobili, più che nel temperato scetticismo con cui guarda alle trasformazioni sociali e politiche che accompagnarono la sua infanzia, è nel tremore di valva dei suoi precoci affetti per Filli, figurino femminile che per il non finito e il non detto già sembra anticipare il Novecento: un'evasione, d'altra parte, che non ha riguardo alla storia, ma è tutta privata, si misura con l'infanzia dell'uomo e non della patria. Pratesi sarà prolisso, scoordinato e magmatico, ma rappresenta la voce più dissonante e ricca di futuro (la tradizione della nuova narrativa toscana nasce di qui, basta pensare a Tozzi). Con lui s'insinua in queste pa-1 gine, per lo più assettate e prudenti, l'ombra livida e nera che interviene a sbarrare e ghiacciare i suoi paesaggi più soleggiati. Le tradizioni municipali, che in altri sono il segno di minuscoli appagamenti, vengono da lui riprese e restituite alle loro origini rissose e feroci. Siena, gentile e aprica, vive in realtà di tetri palazzi, fumose osterie, case di malaffare. Ma quella che si presenta a una prima lettura come polemica contro la città (« insomma erano disperatissimi tutti, ina cittadini »), non risparmia la campagna: il respiro e il vigore della natura non escludono fermenti di violenza e sadismo (la pagina alta del falco torturato e accecato, scagliato quasi a barbarica sfida contro il sole). In Pratesi, insomma, si inasprisce tutto ciò che altrove è idillio, tenerezza, buona norma, con il prevalere di una smania contraddittoria e dolorosa. E spesso in lui certe leziosità dei linguaioli si convertono in ruvida forza espressiva (non a caso, forse, Pratesi fu segretario e lettore del Tommaseo). Poi c'è Collodi. Se volessimo dare per figura il senso della sua vitale ambiguità, dovremmo paragonarlo con quel tal Pelosini. Il falegname Maestro Domenico, insofferente della Toscana liberale e irreligiosa uscita dal Risorgimento, ha un brutto sogno: « Gli pareva d'essere nella sua bottega tutto teso a riquadrare un pezzo d'abeto. Ad un tratto l'ascia gli fuggiva di mano, il legno tremava tutto e, levandosi diritto sul banco, incominciava a ballare una nuovissima danza. E poi l'abeto met leva testa, corna, coda e piede forcuto. Era il diavolo in carne ed ossa che gli rideva sul viso facendo mille smorfie; e che gli saltava intorno trinciando scambietti e capriole infernali ». E' la stessa situazione in cui si trova mastro Geppetto, non terrorizzato però, ma incantato dal suo diavoletto, dalla creatura difforme e danzante, costretto ad inseguirla per tutto il libro, con la speranza talora di non raggiungerla mai, contagiato dalla sua gioia di vivere, dalla sua ilare trasgressione. Lorenzo Mondo

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