L'inquilino paranoico

L'inquilino paranoico Al Festival internazionale di Cannes L'inquilino paranoico Polanski è regista ed interprete di un film dalle situazioni aberranti ma condotto con morbida eleganza ■ Nel " cast " Isabelle Adjani (Dal nostro inviato speciale) Cannes, 24 maggio. Nella stretta finale del Festival, raffittendo i titoli e gl'impegni, ecco un altro film francese di bandiera ma diretto da un regista straniero, il polacco Roman Polanski, autore di II coltello nell'acqua, Repulsione, Rosemary's Baby e altri lavori che hanno lasciato il segno, il segno, in genere, d'una spiccata predilezione per le anomalie patologiche della sensibilità. Tratto da un romanzo dello scrittore pittore e illustratore Roland Topor, mediato allo schermo dalla sceneggiatura dello stesso regista e di Gerard Brach, L'inquilino racconta di certo Trelkovsky (interpretato dallo stesso Polanski), impiegato d'archivio, uno straniero timido e chiuso, che un giorno visita un appartamento in un quartiere di Parigi, dove la portinaia lo informa che l'inquìlina precedente, la signorina Choule, si era buttata dalla finestra qualche giorno prima, e che ora è ricoverata in gravi condizioni. Visitata la suicida all'ospedale, che poco stante morirà, Trelkovski conosce al capezzale dì lei la giovane Stella, una ragazza sconvolta con cui intreccia una lieve relazione. Intanto il proprietario dello stabile acconsente che lo straniero occupi l'appartamento della Choule, abitato da individui queruli e fastidiosi, i quali a poco a poco lo inducono a credere ch'essi vogliano spingerlo a reincarnarsi nella personalità dell'inquilina precedente per fargli subire lo stesso destino. L'ingenita paranoia del protagonista si salda così al problema dell'identità: la casa, l coinquilini, la stessa portinaia gli diventano altrettanti fantasmi e incubi, o per meglio dire simboli della difficoltà di vivere in mezzo ai nostri simili. Gli resterebbe Stella. Ma la ragazza è troppo depressa da poter mettere in ordine il suo scombuiato cervello. Sul quale la suggestione ambientale opera sempre più malignamente: tanto che Trelkovski si traveste da signorina Choule, non per degenerato erotismo, ma per fascinazione mimetica. E dopo altri episodi che sottolineano lo smarrimento dello psicopatico in quel microcosmo minaccioso e alieno, il fato si adempie secondo una soluzione patologicamente rigorosa: Tre'kovski, ormai in dubbio di sé e di tutto ciò che lo circonda, ripete esattamente il gesto della ragazza suicida, Zi- nendo anche, per pochi giorni di sopravvivenza, all'ospedale imbalsamato come una mum mia e urlante da uno spiraglio della fasciatura il suo orrore della vita. Il film non è facile a decifrare: perché i fatti raccontati potrebbero essere veramente accaduti o soltanto sognati: la paranoia, si sa, è teatro a sé stessa. Resta che lo sforzo di Polanski (anche come interprete) per far luce su una psicologia esaltata e se gnarne gradualmente i progressi inarrestabili fino all'autodistruzione, è apprezzabile per morbida eleganza di regìa, dove, contro il solito, il gusto per le situazioni aberranti non si tira dietro personaggi programmaticamente antipatici o situazioni repel-\ lenti. Le locataire è certo per tre quarti, anche per un qualificato pubblico di festival, una insalatina di rasoi, come son sempre le storie relative a manie di persecuzione. Ma per virtù di fattura, lo spettatore la inghiotte senza farsene scorticare. Non è senza effetto sulla suggestione dello spettacolo la splendida fotografia di Sven Nykvist (vincitore dell'Oscar per Sussurri e grida di Bergman) né le scenografie di Pierre Guffoy, i costumi di Jacques Schmidt, le musiche di Philippe Sarde. Il protagonista è affiancato dalla bella parigina Isabelle Adjani (ho schiaffo, Storia di Adele HJ nella parte di Stella. Tra gli altri spiccano Melvyn Douglas, Jo Van Fleet, Claude Dauphin e Shelley Winters, vigorosa portinaia. Tanto questo film francese chiede la cooperazione delle meningi, tanto l'americano Prossima f°rmata, Greenwich | Villagp, le lascia riposare in una vicenda sostanzialmente deludente per la tenuità e la corrività del tono, appena riscattate da spiritosità di dialogo. Benché il suo regista Paul Mazursky sia con questo al suo quinto film, non sarà da questa garbata sciocchezzuala, che rievoca i fasti della bohème americana del 1953 nel famoso quartiere degli artisti di New York, che può sperare vasta notorietà. Il giovane Larry, ebreo, lascia la povera casa di Brooklyn e la madre strillante alla finestra per trasferirsi al Village, dove stringe promiscue amicizie, sostiene dei provini per diventare attore, e alla fine otterrà un passaggio a Hollywood. La madre, ancora una Shelley Winters di gagliarda buffoneria, è la nota lieta del film, quando col marito sottomesso erompe in quell'ambiente d'artisti così contrario alla sua mentalità e gli vuole dettar legge. Il color d'epoca, con tante allusioni all'Actor's Studio, a Marion Brando e altre celebrità, è argutamente conservato. Ma con queste o simili inezie non si fanno film da rassegna internazionale, tutt'al più se ne contrassegnano le pause ricreative tra un Polanski e un Bergman. Leo Pestelli Isabelle Adjani

Luoghi citati: Cannes, Hollywood, New York, Parigi