II boss Liggio ai giudici "Sono accuse ridicole!,, di Vincenzo Tessandori

II boss Liggio ai giudici "Sono accuse ridicole!,, Processato per i sequestri Torielli e Montelera II boss Liggio ai giudici "Sono accuse ridicole!,, Sostiene di essere vittima di sfortunate circostanze e nega tutto: "Capisco i delitti di sangue, non i rapimenti. I soldi che ho speso erano legittimi. Non ci sono prove contro di me; voi dovete dimostrare la mia colpevolezza. E' tutta una montatura" (Dal nostro inviato speciale) Milano, 20 maggio. « Abbia la compiacenza di chiamarmi col mio nome, se lei vuole... Leggio, non Liggio ». Il « padrino » siede di fronte al presidente del tribunale, è sereno, ha assunto un tono discorsivo, a tratti accattivante. Si capisce che per mesi ha pregustato il momento in cui avrebbe potuto parlare, sia pure come imputato, in questo processo alla « nuova mafia ». Qualche battuta pungente, qualche sorriso e poche risposte, date soprattutto per non dire, e la situazione si sarebbe certo trasformata. In fondo, nel passato era quasi sempre andata così. Ma stavolta « l'uomo d'onore » è sembrato uscire con le ossa rotte dall'impatto con una istruttoria che non ha seguito la norma di molte che l'hanno preceduta, che ai « si dice » e ai « sembra » ha sostituito dati e circostanze precise. E' fallito, dunque, il tentativo di personalizzare l'udienza (e di guidarla, se possibile) e quando le contestazioni si sono fatte precise, le risposte sono apparse deludenti. Luciano Leggio, detto Liggio, secondo l'accusa è l'organizzatore materiale dell'attività dei sequestri di persona sviluppata dall'« onorata società ». Prete Coppola ne era la mente. Anche Liggio si è detto vittima di una serie sfortunata di circostanze. I rapimenti? « Posso capire il delitto di sangue, ma non privare un uomo della sua libertà », aveva detto quando fu interrogato dal giudice, e lo ha ripetuto stamani. Per questo confronto con la giustizia si era presentato con cura: sorridente, vestito di grigio, maglione girocollo blu, e per la prima volta, senza occhiali da sole. « In Sicilia, fui arrestato da Melillo, non dal questore Mangano — ha poi raccontato —. Lui si limitò a spostare il braccio di un brigadiere forse perché voleva essere fotografato ». La fuga dalla clinica romana nel novembre '69? « Sono stato regolarmente dimesso e più volte ci sono tornato per controlli — ha spiegato —. Ho smesso dopo aver sentito al Telegiornale che ero ricercato. Ma avevo già scritto al tribunale di Bari e al commissariato di Corleone. Ora ciò che posso temere è un errore giudiziario del quale del resto sono già stato vitti- j ma tante altre volte. Il mio nome è stato messo in quest'inchiesta come il cacio sui maccheroni, per dare peso al processo. In ogni modo non sta a me dimostrare la mia innocenza, ma a loro provare la colpevolezza. E non esistono prove dei collegamenti con i sequestri. E' tutta una montatura ai miei danni. Tutta questa costruzione di cartapesta mi fa ridere! ». L'interrogatorio, poi, ha avuto un inizio faticoso. Il difensore, avv. Sordillo, ha presentato istanza di nullità assoluta perché, durante l'istruttoria per le ricognizioni fotografiche, non erano stati avvertiti i difensori. Si sono opposti l'avv. Mazzola, di parte civile (l'avv. Chiusano è ammalato, a Torino) e il pubblico ministero dott. Gianni Caizzi. Non ricognizione ma semplici identificazioni, hanno spiegato. Istanza respinta. Impassibile ma attento, Liggio ha seguito lo svolgimento della piccola battaglia. Quando poi il presidente, Angelo Salvani, ha riassunto brevemente la sua situazione, con molta gentilezza ha risposto: « Desidererei non parlare di quello che è trascorso... Certo se a lei interessa... ». Sono iniziate le domande per mettere in luce i rapporti con Giuseppe Pullara, indicato dall'accusa come uno degli organizzatori del sequestro Montelera. « Ho acquistato la sua auto Bmw. Fra noi c'era semplice amicizia: per la mia passione dei vini frequentavo l'enoteca. E poi avevo lo stesso suo male, e mi informavo. Non c'erano legami diversi. E' questa l'unica amicizia che ho avuto con Pullara, fatta di correttezza e di rettitudine. Non c'era alcun affare in comune ». Registrazioni telefoniche in casa del vinaio, però, si riferirebbero a Liggio. « Interpretazioni maligne, signor presidente. Le accuse vanno provate. Se il pubblico ministero avrà la bontà... ». Ma i rapporti non è poi stato possibile nasconderli, ed è stata la prima smagliatura anche se non la più importante nel racconto. « Gli ho \ prestato dei soldi, ma così, per il suo lavoro. Lui mi chiedeva di tanto in tanto dei consigli. Io glieli davo ». Nei sequestri, ovviamente, nessuna responsabilità: « Lei sa, signor presidente, che ho una imputazione, anche se gratuita, una dura condanna j che non accetto e per questo ì spendo soldi per i miei avvo- ) cati ». Fra il febbraio e l'a- i gosto 1973, dopo cioè il ss- ! questro di Pietro Torielli, si I scatena un vortice di danaro in assegni e banconote. C'è un versamento, fatto da Pullara per 330 milioni in banconote da 10 mila; poi as segni circolari per altri 114 milioni; ancora 60 milioni depositati e poi ritirati dalla banca. In totale oltre mezzo miliardo. Gli assegni sono incassati a Palermo, da certi Di Giorgio e Di Trapani, e da Pino Mandarali, commercia- lista legato all'« onorata so cietà ». « Alcuni di questi assegni sono stati dati a lei, ha sostenuto Pullara », gli dice il presidente. Serafico, il « padrino » risponde: « Può darsi. Ma siccome non soon un ozioso, giravo l'Italia, certo non pensavo al controllo. Quando uno spende del denaro legittimo, non pensa a tante cose ». C'è poi un'agenda, zeppa di numeri di telefono. Gli è stata trovata quando l'hanno arrestato. « Quell'agenda risale al '72, è una cosa vecchia ». Ma è un caso che vi fossero annotati i numeri personali E poi un assegno firmato da certo Visconti, che l^ccu-sa indica in Antonino Quar-tararo, usato per parziale pa-« Al giudice istruttore risposi: "Ma lei crede ancora ai segreti in questa nostra Italia?" ». gamento di lavori nella villadi Vaccarizzo. « Quel signore,Visconti, lo conobbi sullaspiaggia. Sapeva che ero uncommerciante di brillanti evolle comprarne uno. Quando pagò mi dette un assegno. Non avevamo la penna, allora fui io a firmare più tardi ». A queste verità, secondo le intenzioni del « padrino », il tribunale dovrebbe credere. Vincenzo Tessandori Milano. Un tipico atteggiamento di Luciano Liggio (Tel.)

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