Reycend e la "natura delicata,, di Marziano Bernardi

Reycend e la "natura delicata,,TORNA ATTRAVERSO I DISEGNI IL PAESISTA PIEMONTESE Reycend e la "natura delicata,, Enrico Reycend, torinese (1855-1928), è uno dei « quattro grandi» della pittura ottocentesca piemontese di paesaggio. Quando alla Biennale di Venezia del 1952 Roberto Longhi e Vittorio Viale ne esposero una scelta a guisa di « avvio al migliore apprezzamento, in sede internazionale, d'uno degli impegni artistici più nobilmente sostenuti e meglio connessi all'Ottocento italiano » (parole del Longhi che, intonate all'altro suo giudizio sulla cultura paesistica piemontese, « in tutto il nostro Ottocento la più costantemente elevata », finalmente restituivano alla pittura subalpina del secolo scorso il rango che le spetta nei confronti dei sopravvalutati Macchiatoli), a seguito cronologico di 20 opere d'Antonio Fontanesi, di 15 di Vittorio Avondo, di 24 di Lorenzo Deludili, ne figurarono in quella memorabile esposizione 19 di Enrico Reycend, il più «giovane» del quartetto e fino allora «il più scarsamente noto fra i paesisti piemontesi», almeno fuori del Piemonte; benché già nel 1947 Angelo Dragone e Jolanda Dragone Conti nel loro volume su « / paesisti piemontesi dell'Ottocento» ne avessero auspicato una revisione critica. Questa venne, e magistrale, col saggio di Roberto Longhi sulla sua rivista Paragone in quello stesso 1952. Ma bisogna tener conto che fin dal tempo dello Stella (Pittura e scultura in Piemonte, Torino, 1893) un accorto collezionismo locale non aveva trascurato, tra i maggiori e più rinomati maestri, quest'altro petit-maitre, più dissimulato e discreto, che in un colloquio col Longhi, nel 1917 a Torino, aveva illuminato le finalità e i limiti della sua ars poetica con queste semplici parole: « Per me la natura è sempre delicata ». Fu tale oculato collezionismo che nel 1955 rese possibile a Gigi ed Eugenio Fogliato, titolari della galleria torinese di via Mazzini 9 ed esperti specializzati in pittura ottocentesca piemontese, lo allestimento di una splendida mostra di 110 dipinti del Reycend, corredata da un volumetto curato da Michele Biancale e da chi scrive queste righe. E poiché le mostre a Torino e a Roma del '28, l'anno della morte dell'artista, erano ormai lontane e dimenticate, si può dire che le pagine del Longhi, la rievocazione veneziana, la mostra Fogliato, segnarono il «decollo» della giusta rivalutazione critica del Reycend. Cominciò cosi la ricerca dei Reycend, purtroppo contaminata da molti falsi e imi- fazioni. E quando il collezio- nista non poteva arrivare ai dipinti, li sostituiva, nella sua ammirazione, coi finissimi delicati disegni che per lo scrupolosissimo artista erano sempre stati il documento, l'avvìo, la prima tappa della sua azione pittorica. Perciò numerosissimi, tracciati su album tascabili quasi tutti, della stessa misura a matita, talvolta ravvivati da qualche tocco di biacca che li trasformava in deliziosi quadretti: documenti preziosi di una sensibilità figurativa squisita, sparsi un po' dappertutto perché l'autore, pur firmandoli quasi sempre, non gli annetteva molta importanza dopo averli utilizzati. In questi ultimi vent'anni ne son venuti fuori dai depositi più impensati in gran copia; ne abbiamo visti spesso nelle periodiche mostre « Da albi e cartelle » dei Fogliato, e adesso la galleria « Berman » (via Arcivescovado 9, Palazzo Tirrenia) ne ha riuniti un centinaio, tutti bellissimi, in parte esposti in sala e in parte visibili a richiesta. Questi incantevoli foglietti sono la più limpida traccia immaginabile per seguire il lavoro artistico — nella sua prima ideazione, e poi nel puntuale riferimento descrittivo — del Reycend. Palesemente influenzato dal Fontanesi dopo un tirocinio col Ghisolfi all'Accademia Albertina, tanto che alcuni suoi disegni degli Anni Settanta e Ottanta si potrebbero scambiare con pagine d'album del maestro reggiano (ed i rapporti col Delleani, col « verista » lombardo Carcano ebbero su di lui minor peso di quanto egli dichiarasse al Longhi), Reycend — scrisse il suo grande critico — conquistò d'istinto la forma « più viva e delicata che un italiano sapesse esprimere, de son cru, nell'ambito della civiltà impressionistica ». Vide davvero a Parigi gli Impressionisti? La questione è controversa. Per il Biancale egli ebbe modo di conoscere direttamente l'Impressionismo francese coi viaggi a Parigi del 1878, dell'88, del 1900. Per il Longhi, che non modificò nel saggio del '52 l'affermazione del '49 (prefazione alla Storia dell'Impressionismo di John Rewald), Reycend resta il « delicato affine di Sisley ch'egli però non conobbe non essendo mai stato a Parigi ». In lui, comunque, ritroviamo l'« unico aspetto della pittura italiana che possa ambire al termine d'impressionismo poetico » (prefazione citata). Lo ritroviamo nel pittore che, isolato tra « la "poesia del vero" salita a grande 1 altezza col Fontanesi e la "prosa del vero" che da Piacenza porta al Pittara », cioè alla « Scuola di Rivara », fu in una posizione « equidistante » fra i due aspetti più vivi del paesismo piemontese (nel■la «poesia del vero» dovendosi comprendere l'Avondo, e nella « prosa del vero » il Delleani). Quest'aspetto è chiarissimo nei dipinti del Reycend almeno fino a quando, a partire dal primo decennio del nostro secolo, non indulse troppo al picchiettio luministico della pennellata, e si mantenne fedele al suo leggero tocco a trapunto, tanto simile a quello di Sisley e Pissarro, riscontrabile particolarmente in parecchi dei 19 dipinti generosamente donati nel '52 al Museo Civico di Torino dal Longhi. Ma l'impressionismo poetico del Reycend è forse ancor più visibile nei mirabili disegni. Anzitutto per l'acuta attenzione ai valori atmosferici, resi con trapassi leggerissimi dai segni più marcati della matita o del carboncino a quelli quasi evanescenti nelle chiarezze del cielo. Poi per la vibrazione del tratto, che tutto definisce del motivo prescelto — masse del fogliame, fittezza dell'erba, ramificazioni degli alberi, andamento dei solchi nei campi, sagome di case, profili di monti, atteggiamenti di figurette — senza la minima insistenza sul particolare pleonastico, e sempre con l'intento di intridere di luce la visione; sì che anche nelle immagini apparentemente statiche colpisce una specie di nervosa mobilità, che tradisce l'appassionato interesse del pittore per le cose rappresentate, per lui « sempre delicate ». Questa delicatezza di dialettica chiaroscurale che tutto fonde in una luminosità pacata, davvero alla Sisley, è il carattere dominante sia, del disegno sia della pittura di Reycend. In pochi artisti, come in lui, i due mezzi espressivi si equivalgono per intensità e approfondimento poetico. Forse per questo egli, con pochi segni di matita, era in grado di darci quel « quadro » che aveva davanti agli occhi, ma più ancora dentro il proprio animo. Marziano Bernardi