Un album ebraico di Guido Ceronetti

Un album ebraico IL MONDO CHE HITLER HA DISTRUTTO Un album ebraico A volte non c'è da faticare troppo per creare dello straordinario: basta saper estrarre dagli archivi, con le pinze di un progetto geniale di rievocazione, il materiale adatto. Ecco un grave raggruppamento tematico intorno a un'idea — la famiglia e il mondo ebraico attraverso la fotografia, dal 1850 al 1930 — sprigionare da un volume, luce da spazi e tempi morti, qualcosa di lentamente irresistibile, che avvolge lo sfogliante di conoscenza e significati. Nessuna immagine, nel grandioso Jewish Family Album di. Franz Hubmann (Londra, Routledge & Kegan Paul, 1975) è povera di significato, anzi certe visioni ne sono fin troppo impregnate: perciò il volume va sfogliato con lentezza, come se ogni immagine fosse un pezzo di canto rituale; visto in fretta sarebbe indigesto, quasi un pugno. Prevale in assoluto l'inedito, il disperso, l'irreperibile: di divulgato c'è qualche ritratto di scrittore (Kraus, Kafka, Roth, Feuchtwanger, Werfel) o altro famoso (Disraeli, Freud, Dreyfus, Chagall, Dsiga Vertov, Sarah Bernhardt) ma è un piacere ritrovare insieme, con altri inaspettati personaggi, queste simpatiche conoscenze. Fortissimo e ambiguo è il contrasto tra il mondo ebraico ancora separato, il semiassimilato e l'assimilato, che l'Album mette in straordinaria evidenza. Una luna un po' incerta, la media eclisse e, sull'ultima porta, l'ombra dell'eclisse completa. Tracce di secoli lontani sopra il ponte di ferro del pieno secolo XIX, che porta il destino di tutti. La miseria nutrita di pietà rituale nello sbtetl ghettizzante dell'Europa orientale, lo sforzo alimentato dalla volontà di vivere nell'emigrazione americana, la potenza erompente, tutta progresso e cultura, dal mare frullato del melting poi di Vienna o di New York. L'eclisse ha luogo in questo scuotimento formidabile di sostanza spirituale, nella metamorfosi degli stracci oranti e del muro scrostato per lutto immemorabile in palazzi coll'albero del pane, carrozze, fiumi d'oro, confortevoli interni urbani fondati sul Commercio e l'Industria, studi d'arte figurativa (la rischiosa, la proibita!) colossali filantropie, pur nella trasmissione genetica costante di facce conosciute, di facce come emblemi, così che quella luna velata rimane fisicamente la stessa, sotto la caligine che la scolora. Ottant'anni sono quel che, nei salmi, è dato come termine massimo di un'esistenza umana, e quel che è successo al mondo ebraico negli ottanta anni esposti nell'Album di Hubmann, cioè nel tempo che un solo aggregato di cellule umane impiega per maturare la propria fine, comprende dissoluzioni e risorgimenti, desquamazioni e rinnovi che spalmati lungo tre o quattrocento anni di misura e di respiro stupirebbero ancora. Tutti questi ebrei usciti dai vecchi gusci sparsi sono presi da una frenesia di essere, di contare e di fare che li spinge in alto e dappertutto; eppure il loro sembra un ballo improvvisato su un patibolo, guidato da una oscura volontà di sparire, quando il ballo avrà toccato l'acme. Infatti è mortale fare correre nel vuoto e nell'abisso della speranza messianica un'eccitante locomotiva di conquiste politiche, di rivoluzioni e di imperi economici, voltare le spalle al Castello inaccessibile per costruirne un altro, aperto a tutti illimitatamente, ma di materia corruttibile, e lasciarsi sedurre dall'idolo Avvenire, anzi dare una mano febbrile a fare un mondo su quell'immagine. C'è in lontananza una bancarotta da oscurare molti Rothschild. Per cercare di capire questo Ebreo senza riposo dell'eccezionale periodo in cui l'Album ci trascina, accosto un testo di Kafka e uno di Spinoza. Diceva Kafka a Janouch: — Il vecchio malsano quartiere ebraico dentro di noi è più reale della nuova città igienica intorno a noi —. Di Spinoza conviene vedere nell'Etica, terza parte, la dottrina dello Sforzo (cotiatus) il cui Scolio conclude che noi non vogliamo né desideriamo una cosa perché la giudichiamo buona, al contrario la giudichiamo buona perché ci sforziamo di averla. Quartiere ebraico come centro, ultimum moriens, mentre la volontà spinge a un tremendo sforzo amorale per affrancarsene; al termine dello sforzo, il vecchio quartiere sarà distrutto, anche all'interno del cuore. Il Jewish Family Album è uno spaccato di alveari umani che può essere guardato anche senza preoccuparsi del destino ebraico e dei suoi appigli e risonanze nel mondo contemporaneo — spiare segni è quasi sempre illusione — purché con occhi capaci di commozione e di bellezza. Difficile, davanti a queste immagini creatrici di onde, rimanere insensibili... Si inciampa nei volti e si resta impigliati. E dappertutto riappaiono facce che, sottraendosi ai piedi dell'eclisse, si rimandano i tratti, mistero endogamico, nervoso e spirituale che, di generazione in generazione, modella un raffinato museo di pochi tipi: ciascuna, individualmente, precisa e preziosa, e nello stesso tempo, come specie, riconducibile a un unico alfabeto. Forse le facce ebraiche sono in tutto ventidue, undici askenazite e undici sefardite, come i segni dell'alfabeto che le rispecchia. Succede così che un quartiere di ebrei immigrati come l'East Side di New York presenti in una superba mescolanza linguistica e culturale personaggi che sembrano appartenere ad una stessa famiglia, stretti dal compiacimento orgoglioso nel proprio tipo; tutto questo è già America, ma il vecchio quartiere ebraico non ha perduto la sua capacità di riprodursi: certe fotografie di commerci e di confusioni minute nel Lower East Side o a Brooklyn ricordano il ghetto di Praga o la Moldavanka di Babel, e il profilo e la chiacchiera dell'ebreo galiziano e ucraino li senti cosi padroni di quei luoghi, fulmineo radicarsi di sradicati, come se lo yankee e il puritano non li avessero mai abitati. Una delle più curiose assimilazioni è quella coi gauchos i argentini, cosa che avrà certo interessato Borges e i professori di gauchismo. Ma -qui torna la questione dell'identità giudaica. Che cos'è ancora ebreo nell'ebreo gaucho} Le enormi bistecche sanguinanti dei gauchos saranno kasher per un ebreo gaucho} Dove sarà la sinagoga pampera? Eppure, questi ebrei gauchos, pochi anni prima, bambini pallidi e non sfamati, vendevano pettini e lucido da scarpe su quei lenti e funebri mercati polacchi (anche Oswiecim!) che sfilano nell'Album come un ricordo di grandi piogge, studiavano Talmud nelle scuolette povere e devote, cantavano canzoni cassidiche alle nozze del Rebbe. Ma se un piccolo talmudista slavo parlante yiddish può cambiarsi in gaucho, entrare nel suo mito, l'ebraicità non è l'ombra di un sogno? Per esistere, forse, ha bisogno dello shtell, del villaggio, di meandri urbani con poca luce, di spazi chiusi. Il magnetismo di profondità del rabbino cassidico Urbach, che pare, più che emigrato in Palestina, uscito intero e già vecchio da certi scavi, Rembrandt l'avrebbe captato nella sua luce. Ma l'Album è inesauribile anche di personaggi anonimi, tutti bene incollati a un forte respiro ambientale, a oggetti che assumono forza di occhi e di presenze umane, a un pacco fermentante di lacrymae rerum, mai tristi senza riscatto di energia e di gentilezza. Gli stracci in vendita sono un emblema necessario, come l'alfabeto quadrato che appare in strani impasti coi caratteri occidentali nelle inse¬ gne e nelle vetrine. Ne emergono il solitario che per le vie di Parigi vende ombrelli agli antisemiti, il caffettiere ambulante di Praga, l'uomo seduto all'aperto nel Lower East Side, la famigila boema che fabbrica sigari, Jules Pascin al Café du Dòme a Montparnasse, la famiglia di otto membri che nel 1915, due dei suoi in divisa, in licenza dal fronte, celebra la Pasqua in Galizia. Fantastico bazar di suppellettili schiaccianti è il boudoir di Sarah Bernhardt: ma qui il vecchio quartiere ha lasciato il posto alle nevrosi di un'attrice. Il meglio, il più forte del volume è concentrato nella prima sezione, che raccoglie vita all'Est in epoca austroungarica, prima guerra mondiale, anni fino alla vigilia del dissolvimento. Il mercatino davanti alla sinagoga di Przemysl, la figlia del rabbino galiziano, sofisticata come un ritratto di Colette, un'iscrizione tombale su pietra, con ritratto barbuto, collocata all'esterno di un'abitazione, mobili fracassati in un pogrom in Bessarabia, il seppellimento dei rotoli della Legge profanati, qualche operaio in attesa di lavoro saltuario, ci gettano sguardi che non si dimenticano. Immagini di vita stentatissima, non di anime morte; di vita secondo il proverbio yiddish Schwer zu sein ein Yid (Difficile essere ebreo) ma felice di preservarsi e di continuare nel proprio sforzo. Vita che fa fronte a tutto il male quotidiano, eppure fragile e arresa, farfallirorme, inerme fino al limite del soffio. Guido Ceronetti