OMBRE dietro i vetri

OMBRE dietro i vetri OMBRE dietro i vetri Con l'amico B., noto pittore fiorentino, che vive la, più parte dell'anno in usa sua bella villa di Fiesole, dipingendo e coltivando un appczzato di terreno, finito il pranzo in una caratteristica trattoria romana, si venne naturalmente a discorrere di Firenze, cui è legata tutta la nostra giovinezza, delle oose che amammo, degli amici, vivi e morbi, ai quali oi si accompagnò un tratto di strada. Io chiedevo a lui notizia di luoghi e persone e lui, che ha vissuto sempre a Firenze non allontanandosene se non per brevi viaggi in Italia e all'estero, me le dava con perfetta informazione e, quand'era il caso, con una punta di maldicenza. Nomi famosi apparivano nel discorso insieme a nomi ignoti o poco conosciuti, ma per noi familiari, e che bastavano ad accendere un lumino nella penombra della memoria. A un tratto l'amico mi domandò: — E di Cecconi, te ne rammenti 1 — Chi, Thomas Neal? — Sì, Thomas Neal. — E' morto, no? — Ma che — rispose B. — è sempre vivo e vegeto. Lo incontrai giorni sono, mentre scendevo da Fiesole. Mi disse, con la sua voce un po' stridula: «Venga a trovarmi. Ho molti quadri suoi vedrà». Ricordo — 6egui tò B. — quando capitava al mio studio, molti anni fa, ed io ero un novellino. Girava gli occhi intorno, sulle pareti ricoperte di tele (dipingevo allora, come un forsennato, dall'alba al tramon to), accennava oon la mano quelle che gli piacevano. Ne sceglieva una diecina. Poi, quasi con timidezza, abbassando le palpebre dietro gli occhiali, mi domandava « Un'centino, va bene?». E prima che gli rispondessi, mi porgeva una carta . da cento lire. Io staccavo le tele, le involgevo in un giornale, tutto contento. Resta» va ancora cinque, dieci minuti a guardare il paesaggio fuori della finestra (quattro olivi a duo cipressi contro la facciata rosa di una casa. rustica), il quadro che avevo appena incominciato sul cavalletto, la tavolozza dei colori. Poi se ne andava strascicando il passo, col grosso involto sotto il braccio, e sulla soglia dello studio si volgeva a salutarmi con un cenno della mano libera e un sorriso. L'amico si abbandonava ai ricordi e io 6tavo volentieri ad ascoltarlo come se egli. . insieme alla sua, mi riportasse davanti anche la mia giovinezza. In realtà di Thomas Neal (che è lo pseudonimo col quale Cecconi, critico d'arte, saggista e filosofo peripatetico, scrisse sul Martocco, sulla Voce e altre riviste di allora) ed anche di quegli anni lontani mi ricordo ben poco. E nel calduccio della trattoria, fragrante di cibi e di vino, mentre l'amico parlava, cercavo inutilmente di rivedere almeno l'immagine fisica di quel ca ro uomo che avevo creduto morto ed ora era risuscitato, per me, in messo all'odore degli spaghetti alla matriciana e dell'abbacchio al forno. Mi venne solo in mente che, a quei tempi, Thomas Neal aveva fama, oltre che di buon critico e saggista, di ottimo mangiatore, ma senza eccessi (un gourmet più che un gourmand, come sottilmente distinguono i francesi), al contrario di Jarro, del quale i fiorentini ripetevano spesso (ancora forse ripetono) un motto diventato famoso: «Per mangiare un tacchino occorrono due persone, me e il tacchino». E per. via della sua incontinenza, Jarro morì d'un colpo, una notte che rincasava dal giornale. Altrettanto famoso, ed incomparabilmente più arguto, era in quegli anni un detto di Thomas Neal : «Platone gli è come il porco, gli è tutto bono». Cotesti detti mi riportavano a una Firenze natalizia e gastronomica (il tacchino di Jarro e il porco di Thomas Neal aiutando) i cui poli, a dir così, erano le bistecche ai ferri del Melini, i fagio li col caviale del Paoli, il Chianti di Cencio, i panini tartufati del Procacci, 1 marrons glacé* di Giacosa, i fondante di Doney. In quel l'aria trasparente, lustrata dal tramontano, dietro i vetri di quelle trattorie, botteghe di leccornie e caffè, mi riapparivano, raccolti e ab bastanza nitidi, i personaggi dei quali discorrevamo. Nel la cornice ottocentesca della pasticceria Giacosa rivedevo, seduii a un tavolino minu scolo come quelli delle barn botosedtrstmcariscdsudtaitsplodtodPfaptoBrorotee fialecterAsgvbdsclandtduddcbl«GptbstfictrnaIltgsdtscapgvrgd bole, André" Gide intabarrato di nero e vicino a lui Giuseppe Vannicola, curvato in due dalla spinite, le mani tremolanti, la faccia congestionata, i capelli bianchissimi intorno alla fronte incandescente. (Vannicola dirigeva allora una collana di scritti e scrittori d'eccezione, dove era apparso il Viaggio sull'oceano patetico, a cura di Onofri, la prima operetta di Gide, credo, volta in italiano). E riflesso in uno specchio del Melini, il profilo severo di Giovanni Amendola, imperiosamente sorretto dall'alto colletto inamidato. E in un cantuccio del Paoli-, davanti a un piatto di fagioli lessi, Henry de Groux, pittore visionario, mezzo matto, grande amico di Leon Bloy (e al pari di lui povero ed esaltato; si veda il lo ro carteggio apparso recentemente in'Francia), giallo e smunto come quei ceri che finiscono di consumarsi sugli altari dopo le funzioni solenni. Più in luce e in un colore più fermo e splenden te, ritrovavo, nei miei vaghi ricordi, lo scultore Libero And reotti seduto su uno sgabello del bar Casoni, in via Tornabuoni, la barbetta bionda tagliata all' Edoardo VII, i baffi spioventi, una sciarpa di flanella giallognola intorno al collo, la pipa nella mano sinistra e nella destra un bicchierone a me tà pieno di un liquido verdastro. E come sospeso su una nuvola d'oro, Gabriele d'Annunzio, al centro d'una delle salette di Doney, circondato da quattro' o cinque belle donne che gli facevano la rota come i tacchini. Le «mie ochette» le chiamava Gabriele, tra ironico e compiaciuto, e fingeva di corteggiarle ed ammirarle, non*1 badando, in realtà, che a se stesso, a farsi vedere, a met tersi in mostra: le mani sui fianchi, il monocolo all'occhio, la giacchetta e i pan taloni attillatissimi e il sor riso incantatore che nemme no i denti guasti riuscivano a mortificare. Adolfo Franci

Luoghi citati: Fiesole, Firenze, Italia